30 settembre 2006

MUSICA. Il jazz si può insegnare? La verità sul boom delle scuole popolari.

Scuola musica Testaccio anni 70 SCUOLE POPOLARI IN MUSICA

TI BOCCIO: HAI FATTO UN ACCORDO DI DESTRA

In Italia pullulano le scuole di jazz. Ma a che cosa servono? Il jazz si può insegnare? Jazzisti si nasce o si diventa? Andiamo per ordine: intanto vediamo come sono fatte queste scuole

NICO VALERIO, L'Espresso, 10 dicembre 1978

Roma. Le chiazze di sangue sulle pareti sono state imbiancate di calce. Dell'antico luogo di tortura e violenza non rimane quasi nulla, forse cattive vibrazioni, e di notte l'eco di qualche sinistro muggito o d'un belato agghiac­ciante, tanto per fare atmosfera. Re­stano gli "uncini", orribili ganci al soffitto per le vittime appena uccise e a cui – aggiunge una biondina con humour nero – finiranno, prima o poi, “suspendus” alla Villon, professori ri­tardatari e allievi assenteisti, Già, chi lo direbbe, siamo proprio in una scuola.

Alle pendici del "monte" Testaccio, un' antica montagnola di detriti ("te­stae" per i romani erano i cocci), ne­gli umidi stanzoni d'una dipendenza del mattatoio, ora proprietà d'una ban­ca, funziona abusivamente una scuola di musica che ha fatto epoca, solle­vando accesi entusiasmi e polemiche spesso ingiustificate, mettendo a rumo­re il mondo degli asfittici Conservatori e l'inquieta jazz-scene italiana. Veniva rimproverato ai giovani insegnanti di Testaccio di fare più politica che in­segnamento musicale, anche il carat­tere assembleare delle decisioni, perfi­no di quelle sulla didattica, dava fasti­dio. Ma come, allievi e insegnanti nella stessa commissione, a decidere programmi e metodi? All'inizio sem­brò un concentrato di "sessantotti­smo" in ritardo, utopia realizzata al cento per cento.

vittorini tommaso testaccio Nei primi tempi, si era ancora nel 1975, la cosa fu presa un po' sotto­gamba dai critici jazz, gli unici ad averne avuto sentore per ragioni professionali. Il jazz si può insegnare?, si chiesero i più scettici. Certo, da an­ni in America funzionavano egregiamente decine di scuole di jazz e di musiche "aliene", ovvero di matrice non europea. Dalla Julliard e dalla Berkeley erano usciti i giovani tecno­crati del sax e del trombone, intere sezioni di fiati per le orchestre di Woo­dy Herman e di Kenton. Anzi, si par­lava anche, con una smorfia di disgusto ("tipiche americanate"), dei metodi da Berlitz School, da corso in­tensivo di lingue, utilizzati in qualche scuola.

Prime_lezioni_TestaccioIn un salone tanti box individuali con oblò di vetro, strumento e micro­fono. L'insegnante si collega elettronicamente con ognuna delle cellette monacali, veri containers musicali do­ve il principiante sudando per il caldo e l'emozione cerca di dare il meglio di sé. « Lei, sig. Johnson, va benino ora; più staccate quelle note, sig.Ter­ry », gracchia in cuffia il sadico prof. elettronico, commutando di continuo la manopola sul cruscotto. Con questo sistema un solo insegnante può accu­dire a 20-30 allievi per volta. Roba da "polli in batteria" obiettavano in Italia, scandalizzati dall'ardire tecno­logico degli americani. E poi, pensava più d'uno, jazzisti si nasce non si di­venta.

Il successo della prima scuola libe­ra di jazz e di musica, coordinata dal bassista Tommaso (300 iscritti già nel secondo anno), fu perciò interpretato come un'iniziativa alternativa tipicamente italiana, andata una volta tan­to a buon fine. Un tocco di francesca­nesimo, molto anticonsumismo, pochis­simi soldi, e tutti i poteri all'assemblea degli allievi. Dopotutto era la prova che anche il jazz si può insegnare. Allora è stato il "boom". Per incan­to, come se "radio-musica" avesse dif­fuso a 360° un messaggio concordato, sono sorte ovunque, specie nel Centro­-Nord, decine di scuole. Prima le più politicizzate, o di avanguardia, dove si partiva da Coltrane ignorando ma­gari lo swing e perfino il be-bop di Parker, poi quelle più solide per basi economiche e metodi didattici, sul ti­po dell'Istituto nazionale di studi sul jazz, messo su a Parma da Lorenzo Cuneo, considerata la migliore scuola made in Italy; infine i corsi e i semi­nari locali gestiti., dall'Arci, il centro ricreativo vicino al Pci, che si è but­tata a pesce su un filone così promet­tente e, ciò che più conta, di forte aggregazione giovanile.

Insegnare solo jazz o no?, si sono chiesti subito i responsabili delle scuo­le. E' prevalso il compromesso di evi­tare, talvolta, la parola "jazz" nell'in­testazione pur di riservare alla cultura musicale afro-americana la parte del leone. Gli insegnanti, del resto, ven­gono quasi tutti dal jazz professiona­le: Fatto sta che le scuole popolari di musica e quelle strettamente "jazz oriented" sono quest'anno una trenti­na. Un fenomeno nuovo, che non ha precedenti neanche all'estero, e che tutt'al più può confrontarsi con l'ana­logo "boom" delle radio private.

La proliferazione è stata così rapida che, la cultura ufficiale, gli intellet­tuali, i responsabili dei partiti; anche di sinistra, non hanno fatto in tempo a farsene un'opinione. Le incompren­sioni, anzi, non sono mancate. Il re­sponsabile della musica per il Pci, Luigi Pestalozza, in un articolo sull' "Unità" ha definito riduttivamente quella di Testaccio solo «una scuola pri­vata » e soltanto di recente, quando ormai l'Arci cominciava a diffondere a ragnatela i suoi corsi di musica, ne ha ammesso la rilevante funzione so­ciale. In pratica una forma di "sur­roga" nei confronti dello Stato.

Quello, poi, che ha meravigliato sia i vecchi loggionisti della Scala che gli amatori quarantenni di jazz, già messi sull'avviso dalle strane code davanti ai botteghini delle sale da concerto e dalle adunate oceaniche di Umbria ­jazz, è stato che dei ventenni avessero una fame così pantagruelica di quelle che Louis Armstrong chiamava «cacatine di mosca», cioè le note musi­cali, ma anche di spartiti e arrangiamenti. Dopo una contestazione decen­nale alla scuola, anzi allo studio, non era pensabile che una classe di ven­tenni facesse la fila per iscriversi ad una scuola, neonata, che non rilascia diplomi e non è certo uno "status symbol", neanche per i giovani.

Le esigenze però sono reali. Di jazz nei Conservatori nessuno vuol sentirne parlare. Tuttora vi domina uno spiri­to altezzosamente eurocentrico, che e­sclude non solo il jazz ma anche le musiche dotte orientali, per non par­lare della musica popolare. Ma anche la musica colta europea viene insegna­ta malissimo: dopo tre anni di frequen­za capita che un allievo cominci a ma­lapena a "leggere" con lo strumento. A causa dei pregiudizi romantici ab­bondano i corsi di violino e piano­forte, mentre scarseggiano quelli per fiati, specie sassofoni – richiesti da chi pro­viene dalla provincia, forse per l'effetto di suggestio­ne della banda locale – per di più quasi non esistono i corsi per batteria e percussioni. E' naturale che nelle scuole libere i cor­si per strumenti da banda e jazz (sax, clarinetti, tromboni, batteria) si pren­dano la rivincita.

Amedeo Tommasi ai tempi del trio (anni 60) E poi, che cosa dà lo Stato a questi giovani? Di fronte a tanta "domanda" musicale, l'offerta in tutto il Lazio è rappresentata da due so­li Conservatori, a Ro­ma e a Frosinone, con poche aule, insegnanti e pro­grammi vecchio stile, anacronistici esami d'ammissio­ne, paternalismo, cri­teri elitari. « Lo sco­po è di creare tanti piccoli Rubinstein », dice il pianista Amedeo Tommasi, che insegna teoria alla scuo­la St. Louis di Roma, « ma solo 1'1 o il 2 per cento raggiunge la meta; gli altri formano una palude di cattivi "letto­ri", incapaci perfino di suonare una canzonetta. Invece, bisogna liberarsi della schiavitù della lettura e fare mu­sica in modo autonomo. Altro che musicista-esecutore, passivo e schiavo del­lo strumento. Noi insegnamo a diven­tare musicisti-autori, ad esprimere in musica in modo immediato ciò che si sente, piegando lo strumento se necessario, non lasciandosi piegare ». In­somma, una concezione anglosassone del "far musica", o una sorta di poe­tica dello "Sturm und Drang" appli­cata al jazz?

Questa "rivincita" però spiega il fe­nomeno delle 9 scuole sorte a Roma, delle 5 a Milano e così via, regione per regione. Al Testaccio si sono pre­sentate nei giorni scorsi 800 persone, ma solo 300 hanno potuto essere ac­colte: gli altri, sono in "lista d'attesa". Folla analoga alla Nuova Milano Mu­sica e all'Istituto del jazz di Parma. Il corso di Giorgio Gaslini al Conser­vatorio di Milano ha avuto lo scorso anno ben 600 allievi. Ovunque una ressa incredibile, bambini trascinati dalle mamme (poi però ritirati per colpa, sembra, delle "troppe parolac­ce" e dell'ambiente "di sinistra"), caos, gomitate. Talvolta le quote sono anche di 25 mila lire al mese. Sorgono scuo­le non solo in centro, ma anche in borgata o nei paesi, come la Alessan­drina a Roma e quella di Mentana. Senza contare i corsi di musica pres­so enti e club culturali.

E' un « processo di musicalizzazio­ne » irreversibile della nostra cultura, dice Amedeo Tommasi. Il boom dell' ascolto musicale di questi anni ha il suo peso, c'è la diffusione dell'hi-fi, del disco, la musica trasmessa dalle radio e televisioni pubbliche e private, i concerti e i festival in piazza. « Per­fino lo sceneggiato televisivo "jazz Band", di Pupi Avati », sostiene Lui­gi Toth, coordinatore della scuola Roma jazz, « ci ha portato gente ». Sentono sui dischi o alla radio Charlie Parker o Vivaldi: è naturale che vo­gliano rifarli. La musica, così, ritorna sempre più al suo ruolo di linguaggio primordiale ed elementare, universale perché di immediata intuizione.

Molti allievi vengono dal Conserva­torio. «Magari hanno fatto otto anni e più di pianoforte, sanno leggere ed ese­guire la musica (di altri) al piano. Ma non sanno suonare il piano », lamen­ta Tommasi. Mentre il paradosso è che non tutti gli insegnanti sono diplo­mati. Alcuni sono dei bravi jazzisti e basta.

E i programmi, i metodi di studio seguiti, sono proprio diversi da quelli di Stato? A sentire gli insegnanti sem­brerebbe di sì. Gaslini segue da anni il metodo storico-comparativo, con frequenti accostamenti tra forme jazzi­stiche e no, analizzandone l'evoluzio­ne storico-stilistica, dai canti di lavoro al free-jazz. Per i più bravi ci sono i seminari interdisciplinari. « A Testac­cio si preferisce battere molto sulla pratica d'insieme, mettere subito gli allievi a suonare tra loro, per svilup­pare nel confronto la confidenza con la dimensione viva e collettiva della musica », mi spiega Celestino Dionisi. E questa sembra la novità più appari­scente della metodologia delle scuole libere. Ai "laboratori liberi" – ci so­no lavoratori "A" (per evoluti) e "B" (per principianti) – possono parteci­pare anche i non iscritti, purché sap­piano tenere in mano uno strumento.

Al St. Louis – forse l'unico caso tra le scuole libere – c'è perfino un corso di composizione, accanto al sol­feggio e all'armonia. « il nostro è un metodo elastico », spiega Tommasi. «Professionistico per l'1 o 2 per cento degli allievi che sceglie la strada pro­fessionale, dilettantistico per gli altri. Una lezione di pianoforte dura anche quattro ore. Chiunque entra ed esce quando gli pare. I principianti vengo­no all'inizio e se ne vanno quando cominciano a non seguire più; gli evo­luti vengono più tardi. Ma in genere preferisco lasciare un allievo bravo per seguire gli altri: dopotutto il no­stro scopo è quello di elevare il livello medio musicale, più che sfornare musicisti di grido. Certo, diamo molta im­portanza alle basi teoriche. Non è ve­ro che queste non servano per fare "free-jazz" o musica improvvisata. Ser­vono, eccome. Si sente che un Archie Shepp, o anche un Massimo Urbani, conoscono la cultura jazzistica, le tradizioni ».

Prima regola perciò è "semplificare le regole". «Mentre i "greci" [gli in­segnanti del Conservatorio romano di via dei Greci, NdR] ci mettono tre an­ni per far entrare in "testa i primi rudimenti, noi ci impieghiamo tre set­timane ». Quasi ovunque, in effetti, si inizia subito col solfeggio cantato: in due mesi l'allievo sa solfeggiare dal do fino al mi, in quattro completa la scala.

Ma non basta. « Loro usano tutte e sette le chiavi per la lettura, noi fac­ciamo leggere solo nelle due chiavi più importanti: violino e basso », dice Tommasi. « I "greci" continuano a usare termini paradossali, come "semi­minima", "semibiscroma", "chiave di tenore" ecc. Non è giusto con l'attua­le fame di musica far abuso delle difficoltà ». Ma neanche esser troppo di manica larga: «Ventiquattro dei venti­cinque allievi del mio corso di piano », aggiunge Tommasi, « si sono dichiarati per un corso "duro". Peccato che sia­no un po' pigri. Se solo studiassero un po' a casa...».

Dalle scuole libere, però, non stanno venendo fuori i solisti e i gruppi che ci si attendeva. Dopo il trionfalismo iniziale si è ora più cauti e realisti sui risultati professionali del "boom". Per un Paolo Damiani, buon contrab­bassista uscito da Testaccio, e soste­gno del gruppo d'avanguardia "Strut­ture di supporto", decine di allievi si sono accontentati dell'hobby del saba­to sera, altri hanno abbandonato. «Al­meno la metà, 150 allievi, interrompo­no gli studi», sostiene Toni De Fi­chy del St. Louis. « L'esodo è più forte nei primi quattro mesi: circa il 35 per cento degli iscritti non si fa più vedere ». Stesse percentuali nelle altre scuole.

Il perché di queste ritirate indecoro­se si conosce bene. Viene fatto risa­lire all'estrema superficialità con cui molti ragazzi rispondono agli stimoli della "musicalizzazione" forzata. Basta un lungo assolo di Braxton a Um­bria-jazz o – che so – un clarinetto dalla sonorità "dirty" di un imitatore di Johnny Dodds, per accenderli. Su­bito corrono ad iscriversi, magari in gruppo. Si accorgeranno poi, e sarà un dramma, che per imparare la musica è indispensabile fare molta pratica a casa, anche per ore. Questo li terroriz­za. Altri, suggestionati da un certo modo "televisivo" di far musica e dalla diteggiatura del pianista-divo di musi­ca colta, vorrebbero portare anche sul­la tastiera jazz quella leggerezza, quel modo "arpeggiato" di suonare gli accordi. « Le ragazze specialmente », no­ta Nino De Rose – insegnante di pia­no jazz a Testaccio – « non hanno un tocco jazzistico, non accentano forte, e finiscono per credere che il jazz sia una musica maschilista... ». Così pas­sano al piano classico.

Le donne sono numerosissime. Per 1a prima volta in Italia hanno comin­ciato a circolare, anche nei jazz-club, ragazze con pesanti custodie di sax e di contrabbassi, portate con disinvoltura, come fossero "beauty-case". So­no tanto numerose che potrebbero organizzare vari complessi di tutte don­ne, se solo trovassero delle compagne batteriste, piuttosto rare. Insomma, uno spaccato sociale completo, dove non mancano neanche gli studenti-ope­rai (uno su dieci, sostengono al St. Louis) e gli studenti-impiegati, (due su dieci), di solito statali quarantenni, tut­ti casa e lavoro, ma zelanti.

Nate con l'illuministico proposito di divulgare la cultura musicale, sosti­tuendosi all'inerzia dello Stato, ora però le accademie private vedono proprio nello Stato il proprio avversario. Al­cune, quelle più politicizzate, che spes­so si trovano in locali occupati abusivamente, possono essere buttate fuori da un momento all'altro dalla polizia o dall'ufficiale giudiziario. Altre la­mentano la mancata elargizione di fi­nanziamenti da parte delle amministrazioni locali. Tutte, infine, temono che la progettata riforma scolastica, affi­dando l'educazione musicale di massa alle scuole, finisca con lo svuotare le ragioni stesse della propria esistenza. Eppure, dicono tutti i coordinatori, un compito sociale, anzi un servizio pubblico, lo stiamo svolgendo.

Per ora, intanto, le scuole funziona­no anche come luoghi di ritrovo e di appuntamento per i più giovani, un'utilizzazione cui i mitici fondatori non avevano pensato. Con le case sempre troppo piccole, con uno spazio sempre più ristretto a disposizione, molti ra­gazzi preferiscono incontrarsi "a scuo­la". Un modo simpatico e intelligente, come dice con ironia Tommasi, di ritro­varsi, di conoscersi, perfino di rimor­chiare le ragazze. « Dopotutto la musica è una grande mezzana ».
NICO VALERIO

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ST. LOUIS E' UNA FRAZIONE DEL TESTACCIO?

Scheda informativa sulle principali scuole libere di musica e di jazz

SCUOLA POPOLARE DI MUSICA DEL TESTACCIO, via Galvani 20, Roma. Corsi di jazz, musica colta, folk, musica da ballo. 37 corsi (21 teorici e 17 strumentali). Tra gli insegnanti Bruno Tommaso, Giancarlo Schiaffini, Martin Joseph, Michele Iannaccone, Nino De Rose. Molti lavoratori liberi. 300 soci, più 200 iscritti ai laboratori, un po' sacrificati per mancanza di spazio. Lezioni: in media da uno a tre allievi per lezione. Quote: L. 20.000 di iscri­zione all'anno, più L. 10.000 mensili di frequenza. Impegno scolastico: lezione singola, due ore di laboratorio, due ore di teoria, due ore di solfeggio. Cooperativa di insegnanti e allievi con commissioni miste didattica e amministrativa. Da quest'anno anche un Corso per operatori musicali.

CENTRO JAZZ ST. LOUIS, via del Cardello 130, Roma. 06/483.424. Tutti i corsi teorici e strumentali del jazz, violino compreso. Tra i docenti Amedeo Tommasi, Massimo Urbani, Al Corvini, Roberto Gatto. 250 iscritti. Molto spazio a disposizione. Lezioni collettive più che individuali. Quote: L. 10.000 di iscrizione a ciascuno dei due quadrimestri, più 20 mila mensili. Gratis servizio fotocopie e spartiti. Impegno settimanale: almeno 15 ore, più 12 ore libere per i gruppi spontanei.

ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL JAZZ, via Borgo Felino 31, Parma. 0521/347.53. Direttore Lorenzo Cuneo. Corsi teorici e pratici per ogni stru­mento, improvvisazíone, orchestra ecc. Ha fama di essere la migliore scuola italiana. Lezioni e impegno scolastico: minimo di 12 ore settimanali. 300 al­lievi. Quote: L. 15.000 mensili. Nel corpo insegnante figurano i più sperimentati solisti italiani, da Gianni Basso a Franco D'Andrea. A fine corso un concerto-saggio si tiene nella sala Giacomo Ulivi di Parma.

CENTRO STUDI MUSICALI "BRASS GROUP", viale Villa Heleoise 21, Palermo. 091/267.947. Tutti i corsi teorici e strumentali del jazz. Direttore: Ignazio Garsia, 091/522.202 e 254.422. Tra gli insegnanti vari musicisti jazz, tra cui il vibrafonista Enzo Randisi.

CENTRO MUSICA HANS EISLER, Milano. 02/656.160. Coordina il la­voro didattico di cinque scuole musicali, di cui quattro gestite dall'Arci e una, quella della Scuola Umanitaria, dalla Cooperativa l'Orchestra. Il programma di quest'ultima, contrariamente alla prassi in voga in gran parte delle altre scuole, che basano la loro attività didattica principalmente sulla pratica stru­mentale, consiste in un corso di composizione in cui lo studio dello strumento è considerato come un semplice passaggio verso l'appropriazione dei vari linguaggi musicali, a fini compositivi. I corsi (bisettimanali) tenuti dai musicisti dell"'Orchestra" comprendono: pianoforte, contrabbasso, chitarra, saxofoni, trombone, violino e flauto dolce.

NUOVA MILANO MUSICA, piazza Repubblica 6, Milano. 02/655.555. E' più una scuola privata che una scuola "popolare" di musica. Prevede tutti i corsi di teoria e strumentali del jazz. E' considerata la più seria scuola mila­nese. Tra gli insegnanti si contano molti celebri jazzisti, da Sergio Fanni a Sante Palumbo.

CENTRO DJANGO REINHARDT, villa Pantelleria, Palermo. 091/588.097. Una villa del '700, fatiscente, restituita all'antico splendore 2 anni fa dall'iniziati­va volontaristica degli studenti guidati dal jazzista Claudio Lo Cascio che ne è l'attuale direttore. Attualmente ospita circa 180 allievi. I corsi sono: teoria musicale (obbligatoria per tutti gli strumenti) e poi chitarra, pianoforte, flauto dolce, nonché un piccolo laboratorio di musica elettronica. La scuola popolare di jazz e i seminari d'improvvisazione costituiscono un corso a parte di "per­fezionamento stilistico" per musicisti che abbiano già una buona pratica stru­mentale. La tessera di socio costa 1.000 lire al mese e dà diritto a frequentare tutti i corsi e le attività collaterali del centro (concerti, gruppi di ascolto, semi­nari ecc.). E' l'esperienza più qualificante del Sud.
N.V.

IMMAGINI. 1. Corso di clarinetto. 2. La big band diretta da Vittorini. 3. Una lezione nei primi tempi della scuola del Testaccio (1975). 4. Il pianista Amedeo Tommasi, insegnante alla scuola di jazz di Saint Louis, nella copertina d’un disco ai tempi del suo trio nei primi anni Sessanta.

AGGIORNATO IL 23 GENNAIO 2015

AGRICOLTURA. Non bruciare i rifiuti vegetali: servono al compost

Non ho mai conosciuto ecologisti "di destra". E anzi non ho mai capito bene in che cosa consiste l'ecologismo "di destra". L'ho sempre considerato un fenomeno di imitazione, se non di infiltrazione, un'infiltrazione smaccata e malriuscita. Come per altre espressioni culturali, la Destra copia dalla Sinistra, con molti anni di ritardo, o vi si insinua. Mussolini stesso cominciò partendo dall'interno del socialismo. E al socialismo estremo, con punte di anticapitalismo quasi comunista, arrivò - fuori tempo massimo - con la Carta di Verona.
Sono stato il primo e a lungo unico ecologista liberale, cioè basato solo sulla scienza e sui diritti di libertà, e come ho polemizzato col finto ecologismo di sinistra, altro mezzo con cui la Sinistra sconfitta dalla Storia voleva prendersi la rivincita, così ho una molta diffidenza per l'ecologismo di destra, finto perché antiecologico e solo politico. Eppure, mi si obietterà, parole come "conservazione" della Natura dovrebbero pure avere un significato eloquente. Ma da naturista della prima ora, da liberale Doc e radicale, cioè riformatore (ma trovatemi un liberale che è contro le riforme liberali) ho sempre pensato che l'atteggiamento conservatore sulla Natura e l'ambiente non si possa confondere con la mentalità e la politica d'un conservatore. Insomma, mi è sempre parso ovvio che per conservare la naturalità dell'ambiente ci voglia paradossalmente una mentalità liberal-progressista, capace di innovare, di cambiare le idee comuni tra la gente, tra i produttori, i consumatori, i politici Altro che "conservatori": è il "palazzinaro", l'inquinatore, il cacciatore, il distruttore dell'ambiente ad avere tutto l'interesse a conservare lo stato di cose esistente. Queta non movere, et mota quetare.
E così è stato, finora.
Controprova: è proptio il conservatore politico che, di norma, vuole conservare il tran-tran etico-sociale-politico, ma non vuole conservare la Natura, e teorizza addirittura la supremazia assoluta dell'Uomo sull'ambiente. Cioè il suo "diritto" a fare quello che più gli aggrava, strafottendosene degli altri, dell'ambiente, nella Natura. Come se riservasse solo alla Natura quell'interventismo, quell'attivismo, quel "progresso" che rifiuta in tutti gli altri campi.
Perciò mi ha meravigliato leggere cose sensate in un blog di Fare Verde, il gruppo ambientalista di Destra estrema. Loro obietteranno che il mio identikit del conservatore non va bene per loro, che probabilmente si considereranno rivoluzionari, come il fascismo.
Riporto, perciò, l'articolo sulla "Pirolisi e rifiuti: la frazione organica dei rifiuti è meglio non bruciarla" dal blog di Fare Verde della Sardegna. Sono d'accordissimo sull'uso agricolo del compost ottenuto dai rifiuti vegetali (non "organici" genericamente, ma "organici vegetali"). Dovremmo assolutamente evitare di bruciarli, sarebbe uno spreco assurdo di risorse utili come concime. Capisco dove va a parare l'obiezione: negare gli inceneritori in toto, il che mi sembra eccessivo e sbagliato. Anche perché, nel frattempo, mentre aspettiamo la nuova tecnologia, che ne facciamo dei rifiuti, continuiamo ad esportarli in Germania o a bruciarli senza garanzie dove capita?
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"In una notiza ANSA di oggi L'ENEA afferma che in un futuro molto prossimo sarà possibile smaltire i rifiuti in modo "pulito" e fare a meno degli attuali inceneritori. Moderni impianti dotati di diverse e più avanzate tecnologie sono destinati a mandare in soffitta i vecchi inceneritori. Un nuovo tipo di forno (klin), totale assenza di ossigeno, dissociazione molecolare a più basse temperature (400° contro i 1.300° degli inceneritori), assenza di diossine e furani nelle emissioni, fumi senza polveri: sono queste le caratteristiche che fanno della pirolisi la tecnologia del futuro per lo smaltimento dei rifiuti. Tra i vantaggi di questa nuova tecnologia, c'è il vantaggio di "trattare la frazione umida insieme alla frazione secca".Si tratta di una notizia che offre un motivo in più per sospendere la costruzione di nuovi impianti di incenerimento in vista di tecnologie più avanzate.
Tuttavia, per quanto riguarda la frazione organica, il rischio è che un metodo più "comodo" per disfarci dei nostri rifiuti porti alla distruzione di enormi quantità (fino a 10 milioni di tonnellate, dati APAT-ONR 2005) di scarti organici (umidi e verdi) che rappresentano una risorsa da recuperare con la raccolta differenziata e riciclare in impianti di compostaggio.In particolare, la frazione organica dei rifiuti urbani rappresenta una risorsa strategica per le politiche di protezione dei suoli, sempre più necessarie e urgenti per affrontare il fenomeno della desertificazione che interessa tutti i paesi dell'Europa del Mediterraneo.
In Italia, circa il 30% dei terreni agricoli è a rischio di desertificazione. Per il 5,5% di questi la desertificazione non è più un rischio, ma una realtà, contenendo meno dell'1% di sostanza organica. Particolarmente preoccupante è lo stato dei terreni agricoli in Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Diverse sperimentazioni hanno dimostrato che è possibile restituire sostanze nutritive alla terra mediante l'applicazione di compost, ottenuto dal riciclaggio dagli scarti organici.
Per questo è necessario recuperare la frazione organica dei rifiuti mediante raccolta differenziata invece di distruggerla, qualsiasi sia la tecnologia utilizzata, e utilizzarla come compost per combattere il preoccupante fenomeno della desertificazione. Anche dal punto di vista energetico, il compostaggio può essere una risposta: prima di diventare terriccio ammendante e fertilizzante, i rifiuti organici, se trattati in specifici impianti, possono produrre biogas da utilizzare come fonte realmente rinnovabile di energia.
Fare Verde auspica, quindi, che parallelamente alla ricerca e allo sviluppo delle pur necessarie tecnologie per smaltire i rifiuti residui con il minore impatto ambientale possibile, si adottino provvedimenti normativi specifici che rendano obbligatorio il recupero della frazione organica mediante raccolta differenziata su tutto il territorio nazionale".

29 settembre 2006

IL CIELO SOPRA ROMA. Il "giallo" dei gabbiani sull'Altare della Patria

Il "giallo" dei gabbiani sul monumento al Milite Ignoto, il Vittoriano. Sì, ma non si tratta di guano, di escrementi, piuttosto d'una vicenda misteriosa, degna d'uno Sherlock Holmes zoofilo.
Sapete che non mi piacciono le palestre. L'unica palestra per me è la Natura. L'unico esercizio fisico che mi piace è andare per monti, foreste, valli, ruscelli, canyon, altopiani, vette. E in città? Dopocena, col fresco, il poco traffico, il calo dell'inquinamento, se non ho impegni faccio quello che io chiamo "hiking urbano". Cammino velocemente da casa mia (vicino all'Hilton) fino a piazza Venezia, passando per via Trionfale o Balduina, Risorgimento, Conciliazione, via Giulia (anni fa, il chilometro esatto di via Giulia lo facevo in 7.30 min., cioè ad una velocità di 8 km/h), piazza Farnese, Ghetto.
Un bel percorso. Tranquillo. Lontano dalle folle e dai turisti stupidi. Nella vecchia Roma. Per definirmi "in forma" devo impiegare 55, tutt'al più 60 minuti, non uno di più. Ad una velocità, credo, di almeno 6 km/h.
Ebbene, alla fine del percorso, sbucato dalla piazzetta di Tor Margana sul lato ovest del Vittoriano ero solito vedere alla luce dei grandi fari che illuminano il monumento centinaia di gabbiani volteggiare senza posa.
Vedevo. Mesi fa. Diciamo fino a luglio. Ma di ritorno dalle vacanze estive ho scoperto che non ci sono più. Il cielo è vuoto, pulito. Una cosa mai vista negli ultimi anni. I gabbiani tutti spariti.
Non credo che la Cirinnà, delegata del sindaco per gli animali, abbia assoldato falchi o gheppi, buoni predatori di piccioni (ma non so come se la cavano con i più tenaci, massicci e aggressivi gabbiani... Se così fosse, per carità, non obietterei: come naturista sono per la "lotta biologica": che gli animali se la sbrighino tra di loro, secondo le eterne leggi naturali.
Ma anche se fosse così, i gabbiani sopravvissuti ora starebbero da qualche altra parte. Dove?
Insomma intuisco che qualcosa, e forse qualcosa di grosso, non dirò di grave, deve essere successo nel mese
di agosto, mese com'è noto adatto ai golpe e lle decisioni impopolari o imbrazzanti, mentre tutti erano in vacanza.
Un repulisti anti-gabbiani? Una migrazione totale e improvvisa? Una strage "naturale"? Un cambiamento di abitudini per il rarefarsi delle fonti alimentari?
Non conosco le abitudini dei gabbiani inurbati a Roma come li conosce l'amico Fulco Pratesi, che per primo li ha "scoperti" e documentati.
Che è successo? Lo chiedo sia all'amico Pratesi, sia a Monica Cirinnà.
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Gabbiano in volo (dis. acquerellato, Internet, modif.)

27 settembre 2006

WELBY, grande uomo, non un mostro bionico: fugge i sadici "cristiani"

L'appello drammatico di Piergiorgio Welby, immobilizzato da una distrofia muscolare all'ultimo stadio che gli impedisce di parlare, di mangiare, perfino di respirare, senza macchine complesse e computer, perché gli si conceda almeno una morte dignitosa, ha colpito l'opinione pubblica ed ha posto all'attenzione dei politici finalmente il tema del "testamento biologico" e della buona morte, l'eutanasia.
Eppure, per nulla scossi dalla lucidità di Welby, che dichiara di amare la vita, ma di essere costretto a scegliere la morte solo perché quella che gli riserva il male incurabile e progressivo non è più vita umana, certi intellettuali cattolici hanno dato il peggio di sé. Come ha accusato senza mezzi termini lo scienziato Boncinelli, siamo ormai alla "cattiveria" aperta, alla crudeltà inutile, al sadismo di chi attento solo alla propria "coerenza" di cristiano integralista e fanatico condanna il povero Welby alla "vita", sì, ma ad una vita biologica mostruosa e disperata che non ha nulla della vita umana.
Nel sito Salon Voltaire http://salon-voltaire.blogspot.com/ ospito volentieri le dichiarazioni politiche del "radicale moderato" Benedetto Della Vedova sull'eutanasia, e subito dopo il post dell'amico Della Ragione, medico e libero pensatore napoletano. Le sue sono righe molto umane e sensate, laiche proprio perché non dogmatiche.
Altro che la sbandierata "verità" degli stolti: più la pronunciano, più mostrano di esserne lontani. E la nota fa capire anche ai non esperti che in biologia umana non si riscontrano quelle certezze assolute e "di principio" che piacciono tanto a filosofi e teologi.
Insomma, può sembrare poetico, ma discende dalla scienza: la vita viene "a poco a poco", in un processo tutto sommato "lento". Altro che il "fiat lux" della leggenda della Creazione dell'Universo. E, allo stesso modo, "a poco a poco" la vita se ne va.
Tant'è vero - aggiunge Della Ragione - che perfino al cadavere nella bara, magari già sotterrato, continuano a crescere i peli della barba. La Natura non ama le separazioni nette. E i manichei ultra-cattolici devono rendersi conto che un po' di morte c'è già nella vita, e un po' di vita aleggia ancora nella morte.
Con questi confini labili e discutibili, perde un po' di drammaticità e del significato "di principio" anche il problema della "buona morte". E torna pragmaticamente nell'alveo del diritto e dell'etica sociale, la morale comune del momento (il "comune sentire" di volta in volta testimoniato dai sondaggi). Mannheimer trova che oltre il 60 per cento dei cattolici (per non parlare dei non cattolici) è favorevole alla buona morte, con garanzie e condizioni s'intende.
E' giusto che il Papa dica di no, ci mancherebbe. Sta lì per dire queste cose. Ma noi laici, dopo averlo omaggiato, dobbiamo fregarcene altamente del suo parere, come di quello di tutte le religioni.
Lo scopo della vita umana è il dolore o la felicità? In una società in cui le malattie terminali, le grandi e insopportabili sofferenze, gli umilianti impedimenti fisici e psichici, sono vissuti come torture e scandalose ingiustizie, compito di una società liberale è quello di attenuarli o farli cessare. E se la vita è peggio della morte, per pietà si venga in soccorso dei disperati.
Welby oggi è solo cervello, e che cervello! E' un grande uomo. Un uomo di grande intelligenza e di alta moralità. Da solo vale cinque Pere, sei Buttiglioni, dieci Giovanardi. Merita una medaglia, a lui si intitoleranno associazioni, vie, ospedali. Forse è già oggi un esempio per molti. Un tipo così dovrebbe vivere, altro che morire. Ma se vuole morire perché lui stesso, con quel cervello che ha, ritiene troppo poco il poter soltanto pensare, be', a malincuore il suicidio programmato dobbiamo concederglielo come parte delle sue inalienabili libertà.
E la libertà di vivere comprende anche la libertà di morire. Con buona pace di quei mediocri e cinici "cristiani" che, come ha detto lo scienziato Boncinelli, oggi danno scandalo con l'esercizio della loro "cattiveria", cioè il gusto egoistico della coerenza, non dirò intellettuale (visti i personaggi), ma dei principi ideologici, e vorrebbero condannare un uomo come Welby - loro, i "caritatevoli" - alla vita artificiale e disumana dell'automa, dell'uomo-macchina, insomma all'atroce sofferenza d'un mostruoso e incompiuto essere bionico.

10 settembre 2006

NOTTE BIANCA. Il furbo Veltroni e la folla che "fa spettacolo", impedendolo

Il grande bluff, la spettacolare presa in giro della "Notte Bianca" di Roma, ormai assurta a grande business miliardario, è un esempio da manuale di quell'arte della mistificazione che è la politica degli eventi propagandistici. Ma è anche una metafora della politica pura, cioè pura strategia del consenso popolare: il far vedere e l'apparire, invece del fare.
Peggio, molto peggio, del "panem et circenses". Almeno nel Colosseo, al tempo dei Romani, gli spettatori non erano folla, ma singoli individui, regolarmente e individualmente seduti, addirittura colloquianti col Potere. E oltre al "panem" vero da mettere sotto i denti (crustula al miele, fichi secchi, semi di zucca, pesci fritti, panis-perna o pane e prosciutto, lucanica o wurstel, cioè il fast food d'allora) anche lo spettacolo era reale, perfino partecipato, con tanto di "call and response" (e il definitivo pollice verso o alzato dell'imperatore). Ma nelle Notti Bianche dell'imperatore Veltroni, 2000 anni dopo, ammettiamolo, è bianco, cioè vuoto, anche lo schermo.
Ma come - direte - vuoi proprio fare lo Sgarbi di Roma. L'agenda della Notte Bianca dell'8-9 settembre era perfino troppo piena: centinaia di "spettacoli", "eventi", "concerti", "mostre", "installazioni", "visite guidate". Altro che non-fare, il sindaco di Roma ha fatto fin troppo. E tu, anziché ringraziare... Si vede che sei un anti-veltroniano per partito preso. E dire che Veltroni piace a tutti, alla Sinistra e alla Destra.
Ma sì, amici, Veltroni mi è simpatico, anche perché non dice mai nulla di sgradevole, orecchia un po' di jazz, ed era (ma lo è ancora?) un fan della Juventus. Ma come tutti i politici senza grande personalità, è un furbo di tre cotte.
Che ha fatto? Pensateci bene: non ha fatto nulla, proprio nulla. Solo programmi di carta stampata (pessima grafica, tra l'altro). Tutto era virtuale, potenziale, eventuale, casuale. Inesistente o, peggio, come se fosse inesistente. Solo la costruzione del consenso era reale.
La megalomania ha voluto, preteso come protagonista unico, la folla. Non un pubblico di persone, ma la massa indistinta e caotica, richiamata con ogni mezzo da tutt'Italia, appunto perché si comportasse da folla: ottusa, volgare, becera, insensata, irrazionale. Una folla di giovinastri e di vecchi mal invecchiati (è deprimente vedere bianche chiome poco saggiamente ondeggiare ritmando una canzone di Ivano Fossati a villa Borghese), di brutta gente di ogni età (brutta fuori e dentro, of course, forse perché dormono poco), una populace nevrotica che ostacola, rafforza, contraddice se stessa.
Una plebe così abnorme, talmente riottosa, confusionaria e patologica, da "fare spettacolo" di per sè, come un cast di comparse da film sulla Suburra, di quelli un po' cafoni in cui il centurione romano mostra l'orologio al polso. Una folla che facendo spettacolo impedisce così ogni altro, vero spettacolo.
Gli eventi in programma? Vischio per allodole e fringuelli, offa per i cani ottusi e ringhiosi della stampa asservita (quasi tutta), raggiro per i tanti Bertoldi, truffa per i gonzi elettori. Tutto era in realtà virtuale.
Quando non era moltitudine semovente e in tmulto, era una fila chilometrica immobile e tetra dappertutto: chi può onestamente sostenere di aver assistito, tanto da udire e capire o vedere qualcosa, a più d'uno tra le centinaia di eventi?
Ma sì, era giusto così, perché dopotutto l'unico evento vivo, fotografabile - ripeto, e ho centomila prove - era la folla stessa. Che infatti, incurante dell'opuscolo ineffabile, gigioneggiava, ripiegava, indugiava su se stessa, non si stancava mai di essere folla (che so, magari suddividendosi in rivoli e poi ancor più giù, giù per li rami, in gruppetti di amici e poi in coppie o singoli, da indirizzare a quello o a quest'evento).
Macché, sempre folla restava. Perché folla voleva restare. E da folla, cioè da un lontanissimo e irreale "altrove", che poi era il vero palco, la scena principale, avrà forse gettato qualche volta uno sguardo a questo o quell'attore virtuale, come Gigi Proietti (in realtà, a quel punto, era lui, a parti invertite, l'unico vero, privilegiato spettatore della folla...) previsto dal programma.
E da lontano, tra rumori e sommovimenti d'una plebaglia di figuranti borgatari di Cinecittà, tra olezzi naturali e cattivi deodoranti, profumi di pizza di cipolle e di dolciastro Chanel di vecchie grinzose (quante vecchie e quante grinze nella Notte Bianca, ahimé troppo illuminata), le ragazze bellocce accorse da Firenze o Napoli, Isernia o Viterbo, storcevano il collo per vedere l'invisibile. Non sapevano che erano le uniche, non pagate ma paganti, interpreti co-co-co della performance, roba ormai da interessare l'Ispettorato del Lavoro come "lavoro atipico" se non addirittura sfruttamento di lavoro minorile. E scappavano, scappavano, come voleva il copione crudele per tramandare ai posteri l'imperitura Gloria Veltroniana, da una parte e dall'altra. Senza mai fermarsi. Un movimento di masse degno di Cecil. B. De Mille. Anche volendo, del resto, non avrebbero potuto fermarsi a "guardare" un evento esterno, tutte prese dal proprio stesso evento. Sarebbe stata una contraddizione insopportabile. Erano lì solo per partecipare. Anzi, per esserci, e basta.
Perciò l'imperatore Claudio Nerone borbotta soddisfatto nel suo sonno eterno: l'allievo Veltroni, è vero, non ha ancora abbattuto il Colosseo (però l'ha venduto più volte), né ha ancora incendiato Roma (anche se, in fondo, una "Notte Bianca" ne è l'equivalente non-violento), ma è sulla buona strada. La popolarità, perfino in politica, è un mostro a sette teste che divora se stesso. Che cosa non si fa, senza far nulla e non sapendo far nulla, per far vedere a tutti di fare tutto! Onan, figlio di Giuda, fratello di Er, nipote di Giacobbe, marito di Tamar, in fondo lo aveva capito. Senza far nulla, faceva tutto lui. Da solo, però. Almeno, lui, non aveva bisogno della folla per godere.