08 settembre 2007

SANTI TENORI. "Scena", simpatia, pressappochismo e tanta prosopopea.

PAVAROTTI? Dicono che fosse l'italiano più famoso all'estero. Sarà. Ma certo non ci piace questa cartolina color seppia, il logoro dagherrotipo dell'italiano bravo solo quando è in cucina o quando canta a squarciagola romanze molto orecchiabili dell'800. Perché a rifare l'antico melodramma o il difficile canto della musica italiana antica, sono dolori, e i cantanti italiani capaci si contano sulle dita d'una mano.
E già, perché è il ritmo, anche nella melodia, il punto di forza della musica vocale. Quel ritmo, quella scansione, quella "durata", che a quanto pare il Divo Luciano ignorava. A detta dei critici più severi e meno demagogici della musica lirica.

A noi, critici jazz, non ci impressiona certo il fatto che Pavarotti non avesse ancora dimestichezza con la lettura, come lamenta Paolo Isotta, e che dovesse mandare tutto a memoria, accordo dopo accordo, abbellimento dopo abbellimento. Ci meraviglia, certo, anche perché nel jazz, da molti decenni ormai, quasi tutti i musicisti sono capaci di leggere all'impronta qualsiasi spartito. Questa, anzi, sarebbe una dote in più. No, ci scandalizza e ci appare incompatibile con l'essenza della musica l'assenza in Big Luciano di senso del ritmo, elemento di base alle origini stesse del fenomeno musicale presso tutti i popoli. Ma vaglielo a dire ai soliti melomani italiani di provincia, diseducati alla musica dal Romaticismo mieloso del cosiddetto e famigerato Bel Canto e dal verdismo (o, peggio, dal puccinismo).
Come liberali, poi, abbiamo da lamentarci dell'assistenzialismo di Stato che ha permesso agli Enti lirici di gravare sulle tasche del cittadino, anche quello appassionato di Vivaldi, Corelli, Boccherini, Marcello, quasi mai eseguiti dagli Enti musicali e mai trasmessi dalla Rai, per non parlare di musica jazz, che pure - a volerli seguire nel loro provincialismo nazionalistico - ha alle sue origini un po' di musica italiana e di musicisti italiani. Fu Corrado Augias a condurre tempo addietro una bella inchiesta su "quanto ci costa" la musica lirica all'italiana, tutta basata sui soldi dello Stato, perché i suoi cultori sono pochi e privilegiatissimi. Una vera "casta" sulle spalle di tutti. E senza questo mercato "drogato" dai finanziamenti pubblici non ci sarebbe neanche stato il fenomeno Pavarotti.
Ed è poi davvero una grande musica? Da critici d'una musica diversa, ma pur sempre occidentale e perciò fondata sui medesimi elementi, ci permettiamo di dubitarne. Non c'è confronto di creatività e arte tra l'esecutore-interprete dell'opera d'arte scritta dal compositore della musica lirica o sinfonica e il "musicista totale" del jazz, che è sempre, almeno in parte, compositore, interprete, esecutore, arrangiatore, solista. Non per caso uno dei più grandi critici e musicologi classici, del Novecento, Giulio Confalonieri, scrisse che la musica jazz - ion quanto genere - rappresenta il punto più alto di creatività artistica del secolo. E certo né gli Strawinski, né gli Hindemith, né gli Schoemberg possono valere, anche sommandosi, ad eguagliarne il peso.
Ma ci offende anche la mitizzazione popolare post mortem, all'italiana: come se bastasse vivere a lungo e morire al momento opportuno, quando i tempi sono mediaticamente maturi, cioè il "personaggio" è diventato anche un'icona da tv e da Novella 2000.
E nessuno si sottrae, tantomeno giornalisti, uomini di spettacolo e colleghi musicisti, all'ipocrisia e al conformismo delle lodi "da inumazione", quasi a voler strappare parassitariamente al cadavere ancora tiepido una parte infinitesima di popolarità, nel disperato tentativo di vivere, e facendo soldi, alle spalle del morto. L'esserci, insomma, vale molto più dell'essere nella società dell'apparire. E' la ben nota "sindrome Paolini", il finto folle, in realtà lucidissimo personaggio, che si infila abusivamente davanti alle telecamere. Un po' come, a livello più razionalizzato, fa sempre Pannella.
Ma facciamo parlare il critico Isotta, che ringraziamo per il coraggio. (Nico Valerio)


L' ADDIO AL GRANDE TENORE
La sua forza e i suoi difetti
Paolo Isotta, Corriere della Sera, 7 settembre 2007
Vorremmo ricordare il tenore emiliano com' era ai suoi esordi, rimuovendo i detriti limacciosi accumulatisi con gli anni. Da tenore "di grazia", emulo di Tito Schipa, il quale è ovviamente irraggiungibile, cantava nel "mezzo carattere" dell' Elisir d' amore e della Sonnambula. Possedeva un timbro delizioso ch' era immagine di giovinezza, fiati lunghi e sani e quella splendida chiarezza di dizione che non l' ha abbandonato mai. Sotto quest' ultimo profilo, anche nei periodi meno felici, Pavarotti restava esempio d' una vecchia scuola italiana gloriosa: quando cantava si capiva ogni parola. Contemporaneamente praticò con lo stesso successo il repertorio "lirico": a esempio, il duca di Mantova del Rigoletto. Lo si volle accostare a Beniamino Gigli e, ripeto, per bellezza di timbro e chiara dizione ne era un erede.
Ho un prezioso ricordo d' un testimone oculare quanto autorevole. Interpretava questo ruolo al Massimo di Palermo sotto la bacchetta del grande e burbero Antonino Votto. Rientrando il Maestro in camerino dopo la recita, borbottava: "Nunn' è ccosa!". Perché un direttore di tal calibro era scontento d' un delizioso tenore? Pavarotti possedeva in radice difetti da definirsi in radice che i pregi della giovinezza dissimulavano ma non potevano cancellare.
Egli era un analfabeta musicale, nel senso che non aveva mai appreso a leggere la notazione musicale: le opere doveva impararle a fatica nota per nota con un tapeur paziente. Questo è ancora il meno.
Egli era a-ritmico per natura, non era possibile inculcargli se non in modo vago la nozione della durata delle note e dei rapporti di durata. L' Opera lirica non è il canto del muezzin, è prodotto di accompagnamento orchestrale e richiede voci che s' accordino fra loro. S' immagini Pavarotti nel Sestetto della Lucia di Lammermoor...
Per avere quest' eccezionale cantante si doveva passar sopra a molte, a troppe cose, e così si ricorreva a direttori d' orchestra abili nel "riacchiappare" il tutto quanto pronti a chiudere tutti e due gli occhi sul rispetto della partitura musicale. Questo difetto è con gli anni aumentato, giacché Pavarotti, il suo vero torto, non aveva e non voleva avere coscienza dei propri limiti. Col crescergli un ego caricaturalmente ipertrofico diventava sempre più insofferente delle critiche, anche solo degli avvertimenti affettuosi, come affrontava zone del repertorio che gli erano precluse dalla natura e dall' arte.
Da qui alle adunate oceaniche nei continenti, cantando egli con amplificazione, alle manifestazioni miste con artisti leggeri, magari più musicali di lui, alle canzoni napoletane detestabilmente eseguite, al suo abbigliamento carnevalesco, ai prodigi di cattivo gusto, è stato tutto un descensus Averni: ogni passo ti tira il successivo. E pensare che aveva cantato col maestro Karajan..
JAZZ. Un brano magistrale, ma anche una testimonianza storica e musicale importante del movimento "be-bop", che segnò una svolta epocale nella musica jazz. La registrazione filmica e sonora fu fatta con mezzi non professionali da uno spettatore: Charlie Parker e Dizzy Gillespie in Hot House (1952)

AGGIORNATO IL 5 GENNAIO 2015

6 Comments:

Blogger lapaginanera said...

beato te che riesci ad unire tutto questo

8 settembre 2007 alle ore 18:24  
Blogger Nico Valerio said...

Non li "unisco" io: sono i difetti del tipico cantante lirico italiano, ma anche le caratteristiche che ne fanno un uomo di successo. Ricordo bene come veniva criticato dai melomani puristi P. all'inizio. Poi, al solito, dai e dai, a forza di vederlo dappertutto osannato, forse il giudizio del melomane medio è cambiato.
Ma la lirica in toto resta un'arte assistita e falsata.

Auguri per il tuo sito-blog: sembra elegante, ma è presto per dirlo. Da naturista e nudista approvo l'idea di iniziare con le visioni ravvicinate dei sessi femminile e maschile, sia pure nell'arte.

9 settembre 2007 alle ore 21:12  
Anonymous Anonimo said...

Sono d'accordo con te. E anche con Isotta. Vabbè, lui è quel pazzo esteta e perfezionista che è, e non posso seguirlo più di tanto, ma certo ovunque in Italia, anche nella lirica, ha successo popolare non il puro ma chi annacqua.

9 settembre 2007 alle ore 23:56  
Blogger Antonio Candeliere said...

Condivido Nico Valerio.

28 settembre 2007 alle ore 15:49  
Anonymous Anonimo said...

C'è una Casta lirica, che non è la "Casta Diva", ma il sistema di privilegi e protezionismi grazie a cui la lirica sopravvive. D'accordo, è anche una nostra cultura, ma c'è modo e modo. Perché non ridurla alla parte musicale riducendo i costi o eliminando del tutto gli allestimenti scenici?
C'è forse scritto sullo spartito di Verdi che ci vuole quel famoso costoso architetto per fare una scena che sarà vista per 10 giorni?

9 ottobre 2007 alle ore 16:44  
Anonymous Anonimo said...

C'è una Casta lirica, che non è la "Casta Diva", ma il sistema di privilegi e protezionismi grazie a cui la lirica sopravvive. D'accordo, è anche una nostra cultura, ma c'è modo e modo. Perché non ridurla alla parte musicale riducendo i costi o eliminando del tutto gli allestimenti scenici?
C'è forse scritto sullo spartito di Verdi che ci vuole quel famoso costoso architetto per fare una scena che sarà vista per 10 giorni?

9 ottobre 2007 alle ore 16:44  

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