03 novembre 2010

JAZZ. Non è colpa della critica se Louis Armstrong fu un genio solo da giovane

E' strano, ma "con tutti i problemi che ci sono", la figura e la musica di Louis Armstrong hanno interessato alcuni lettori d'un Forum specializzato, spingendomi a una piccola polemica a difesa della critica e della libertà di cultura.
Avevo letto infatti che la "cattiva stampa" critica di cui godette il grande Louis negli ultimi decenni sarebbe stata - nientemeno - colpa di una "critica intellettualistica", teorica, saccente, fuorviante, diseducativa, ignorante, politicizzata e forse anche (ci aggiungono per buon peso) "di sinistra".
Figuriamoci, ho sempre criticato - in articoli sui giornali e non in salotto - la piccola fazione della pseudo-critica nutrita solo di ideologia anziché di estetica, insomma in stile "anni Settanta", che lodava l'appartenenza militante o le intenzioni sociali e politiche (spesso solo il titolo del brano...) del musicista, più della musica da lui effettivamente suonata. Lo stesso curioso favore di cui il sassofonista Archie Shepp godette per molti anni in Italia, e solo in Italia - mentre aveva poco successo negli Stati Uniti - era forse provocato da un particolare del suo curriculum: aveva scritto un'opera dal titolo The Communist.
Del resto, erano tempi in cui alzare il pugno chiuso alla fine del brano portava a grandi applausi nel pubblico dei Festival , nonostante la modestia imbarazzante del musicista.
Però, stavolta, nella polemica sull'Armstrong minore, quello della decadenza, contrapposto a quello geniale degli anni 20 (Hot Five, Hot Seven, e le partecipazioni all'orchestra di Fletcher Henderson e altre) non una parola veniva spesa da un esperto appartenente al partito dell'anti-critica sulle figuracce e sull'imbarazzo che provocava negli appassionati più colti e sui critici il vecchio Louis, con i suoi vocalizzi grotteschi ormai autoreferenziali (che se li avesse prodotti un cantante esordiente al Savoy Ballroom negli anni Trenta, sarebbe stato licenziato su due piedi), il macchiettismo deteriore da circo e il trito cliché dei duetti canori. Per tacere della canzoncina di Sanremo. E spesso, spiace dirlo, si trattava di mediocre musica leggera, della più commerciale.
Perciò non capisco come qualcuno possa ironizzare su certi osannati musicisti italiani, e non parlo dei bravi Bollani o Fresu, ma del già "vecchio mito" Rava, anch'egli trombettista. Imputare al povero Rava, per di più anziano, che più di tanto non aveva potuto dare neanche da giovane per ben noti limiti tecnici e stilistici, ciò che non si ha il coraggio di imputare al ricco ex-genio Armstrong?
Ma un altro aspetto insidioso della contro-critica si fa avanti. Il non voler "ridurre" Satchmo al suo decennio migliore, sostenendo che ci sarebbe del buono anche nel lunghissimo periodo della sua decadenza artistica, anche dal 1940 in poi, appare una rivalutazione mai chiaramente dichiarata dell'Armstrong della decadenza, con la scusa dell'osservazione del musicista nella sua completezza biografica e umana. Sarebbe di per sé una sorta di "rivisitazione", quasi un "revisionismo" storico-estetico, dunque di un movimento in qualche misura "colto". A riprova, però, non si portano nuovi documenti musicali, ma solo il fatto che la pubblicistica è tornata ad occuparsi di Louis. Ma basta?
"Il bel volume di Giddins ["Satchmo: The Genius of Louis Armstrong"] ha segnato l'avvio di un nuovo interesse critico attorno alla figura di Armstrong - scrive il critico Luca Conti, che è poi stato ulteriormente rafforzato dalla pubblicazione di ben altre due biografie: "Louis Armstrong: An Extravagant Life" di Laurence Berggreen (1997) e la recentissima, notevole "Pops: A Life of Louis Armstrong" di Terry Teachout. Quest'ultima, in particolare, attinge all'enorme collezione di nastri incisi privatamente dallo stesso Armstrong e adesso finiti sotto la custodia del Queens College; nastri in cui Louis parlava per ore e ore di tutto ciò che gli passava per la testa e che rivelano un uomo ben diverso dall'immagine pubblica tramandata nel corso dei decenni. Insomma, su Armstrong la critica ha fatto dei passi da gigante, negli ultimi tempi, e non è ormai più possibile pensare di poter valutare il trombettista secondo i criteri in vigore negli anni Cinquanta e Sessanta". Così concludeva il Conti.
Ma, mi chiedo e gli chiedo: "nuovo interesse critico" solo perché escono dei libri? Da scrittore, noto che giornalisti e scrittori professionali (pensiamo al prolifico e versatile Giddins) sono fatti per scrivere libri. Non sempre vuol dire che la critica ha trovato nuovi documenti musicali e ha per questo cambiato parere, non sulla vita ma sulla musica di Louis. Tanto meno un breve libro di 200 pagine pieno di foto. E infine quali sarebbero, di grazia, i "nuovi criteri" della critica aggiornata sull'Armstrong di "Hello Dolly" o di Sanremo?
D'altra parte come in tutti i periodi di decadenza, quando mancano cultura e idee di riferimento condivise, è di moda "revisionare", e perfino i Borboni si tenta di riabilitare. Dunque non mi meraviglierei se qualcuno tentasse di rialzare la parte calante dell'asimmetrica curva di Armstrong: rapida-ripida in salita e lenta-lunga in discesa.
Ho appena finito di leggere una nuova biografia di Cavour che mette in luce carteggi prima sconosciuti e lettere personali che delineano in maniera leggermente diversa i suoi rapporti con altri politici del Parlamento transalpino. Benissimo. Ecco un pretesto per una piccola rivisazione critica.
Ma l'equivalente per una rivisazione critica d'un musicista come Armstrong (e in un jazzista, è noto, l'unico vero documento è, ben più di diari, interviste, foto, testimonianze o spartiti, la registrazione sonora, su lacca, cartone cerato, a filo o su nastro o su vinile, che dir si voglia) sarebbe il ritrovamento miracoloso in un baule di qualche decina di reperti del genere fatti da un musicologo o ricco amatore dal vivo, durante le esecuzioni ufficiali o - che so - after hours o in jam sessions in locali pubblici e privati.
Ma finché queste impossibili prove di un Armstrong "segreto e diverso" dal 1930 al 1970 circa non verranno prodotte, farà testo lo stato dell'arte della critica storica ormai assodata, sorretta per di più dalle allenate orecchie di noi appassionati.
E sulla base delle centinaia di prove inconfutabili che sono le registrazioni che abbiamo, emerge la conferma di quello che si sa da tempo. Un Genio della "melodia ritmica" e, tra le tante altre virtù, anche della suprema sintesi (ogni volta tutto in pochi secondi, diciamolo, invece dei tanti minuti che si sarebbero poi presi, grazie alla tecnologia long-playing, i musicisti dall'hard-bop in poi, senza parlare delle "lungaggini" di Coltrane e altri). E l'arte è anche capacità di sintetizzare in modo geniale, per cui spesso - volgarizzo - ciò che è piccolo è superiore a ciò che è grande, così come è più facile trovare un racconto breve più perfetto d'un lungo romanzo (cfr. EA Poe, Croce e la vexata quaestio della Divina Commedia, ecc).
Ma un Genio effimero. Perché iniziò subito, per limiti propri, fisici e intellettuali (non è che fosse... eehm... un'aquila) e colpe dei suoi consiglieri, una decadenza con alti e bassi che ebbe una disastrosa lunga agonia, di cui "tacere è bello".
Tanto che io che ho sempre amato molto Louis giovane (dagli Hot Five e Seven, all'orchestra di Henderson ecc), già a 16 anni mi vergognavo letteralmente, con un brivido insopportabile di imbarazzo, all'ascolto di certe sue uscite vocali o di duetti o di assoli strumentali. E non voglio parlare della canzoncina per Sanremo.
Insomma, è tanto grande sul piano musicale il primo Louis che ogni operazione tesa a rivalutare musicalmente il secondo, oltreché impossibile esteticamente e storicamente, sarebbe in pura perdita. Non varrebbe la pena. Il Genio di Louis può permettersi anche una decadenza indecorosa, da musica leggera commerciale e neanche delle migliori. Si sa com'è nella società di massa: ci si abitua al bello come al brutto. Se hai un nome. E se qualcuno ti ha eletto a Mito. Perciò negli Umani esiste (dovrebbe esistere) la funzione critica.
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PS. Per suprema onestà (un po' narcisistica, forse, ma sempre meglio che essere disonesti) ricordo a me stesso e a tutti che molti anni fa, da critico, scrissi un articolo apparentemente contrario a quello che ho appena detto, molto polemico contro la "manìa romantica" dell'enfasi, cioè il vezzo di considerare la storia del jazz come una pura sequela di Geni, di Mostri sacri, di Super-artisti, di Primedonne, di individui Superiori ecc. Tipico del Romanticismo. Ma a basso livello è una comoda scorciatoria per cronisti e titolisti. Un classico: muore un jazzista? Ebbene, sicuramente è morto Il Padre del Jazz, il Re della tromba o del sassofono o del "clarino" (sic). Possibile, mi chiedevo, che tutti (in vita o dopo morti) fossero re, conti, imperatrici, presidenti, duchi? E i soldati semplici, i sidemen, i musicisti comuni? D'accordo, la pubblicità, ma... la "critica"? Intendevo con quella provocazione, da laico e razionale, tagliare le gambe ai Miti, e anche rivalutare l'ordinaria amministrazione, il jazz normale di tutti i giorni, le tante riesecuzioni o riletture, gli onesti e dignitori jazzisti che lavorano sodo nel mainstream (antico, cioè swing, e moderno, ovvero hard-bop) senza inventare o innovare alcunché, solo conservando il tessuto connettivo se non il DNA del jazz, a futura memoria.
Ebbene, facendo esame di coscienza, non vi vedo una contraddizione con la mia posizione su Armstrong. Infatti non ironizzo sul suo Genio, indiscutibile, ma anzi sulla... brevità della sua durata. Anche perché l'ex grande Louis durante la lunga decandenza non fu un anonimo ma dignitoso uomo di fila di orchestre mainstream, ma, sul piano strettamente musicale, molto, molto meno.

JAZZ. Il Grande Louis Armstrong in Potato Head Blues (con gli Hot Seven, 1927). In alternativa lo si può ascoltare qui, come ai suoi tempi, da un disco a 78 giri su un giradischi meccanico non amplificato dell'epoca. Si noterà, intanto, la coralità del jazz di quegli anni, che ancora ricorda la banda. Il solismo infatti è molto limitato: a suonare non è un solista o un gruppo di solisti, ma un collettivo. E com'è coeso, elastico e dialogante al suo interno, questo collettivo! Spicca, però, la centralità della tromba di Armstrong, soprattutto nel secondo, inimitabile, assolo, genialmente condotto come un curioso call and response con i break dell'orchestra. In questo come in altri brani con gli Hot Five e Hot Seven, Armstrong ha un fraseggio rapido, potente, fantasioso, essenziale, insieme melodico e profondamente ritmico, che letteralmente conduce e domina l'orchestra. Nulla di tutto ciò si ritroverà nei decenni bui dell'estrema decadenza, quando impietosamente le ragioni del business e del Mito lo costrinsero ancora a calcare le scene. 40 anni dopo (ma sembrano cento), ecco la penosa esibizione al Festival della Canzone di Sanremo del 1968 (Mi va di cantare), dove un qualsiasi cantante e trombettista dilettante di provincia avrebbe fatto molto meglio. Ma all'imbarazzo dei cultori di jazz si rispose con le motivazioni dello "spettacolo", insomma dell'evento. Noi ce ne vergognammo molto, e per anni, anche perché Armstrong vecchio avvalorava la leggenda sottoculturale per cui il jazz non fosse altro che una musica leggera eseguita in modo un po' diverso e con criteri estetici di manica larga (p. es. nel... canto). Queste e altre addirittura peggiori cadute nel Kitsch più commerciale (perché per l'ottuso uomo-massa senza gusto il cattivo gusto "vende") non le perdonammo mai all'ex grande Louis Armstrong, genio solo a 20 anni, e poi plagiato per 40 anni da occhiuti manager, cinici discografici e giornalisti incensatori, magari solo per la necessità di avere comunque il "personaggio".

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