05 marzo 2014

CINEMA O CULTURA? Spettacolo e affari: “Non l’ho visto e non mi piace”.

Sorrentino Oscar LA "CULTURA" SECONDO LORO. MA SI’ QUELLA CHE SI CELEBRA DI NASCOSTO NELLE SALE BUIE. “Non l'ho visto e non mi piace” diceva di un film da stroncare a priori non so più se un raffinato-tranchant Goffredo Fofi, un salottiero-snob Nanni Moretti o qualcun altro con altri aggettivi, interpretando il critico supercilioso [era da parecchio, cioè da quando ero giovane e facevo il critico, che non usavo questa parola... ma ora ci posso mettere la faccina ...:-) ]. Però la battuta dell’intellettualino politicamente corretto anni 70 ora ci vuole, eccome, perdinci. Dopo la “Nominescion” all’Oscar dell’italiano Sorrentino!

Visto il Tripudio Nazionale per il “nuovo Fellini”, l’Adunata Oceanica nella nuova Piazza Venezia Online, solo perché La Prima delle Arti Superne, il Cinema, decreta ancora una volta, dopo Gorgonzola e Ferrari (ma tutti sanno che preferisco di gran lunga la prima), l'Italico [un altro formaggio] Genio, premiando non so più se il discreto regista della Grande Bellezza o il grande regista della Discreta Bellezza (fatto sta che due “grandi” così vicini sono troppi: una ripetizione. Del resto mi dicono che il regista è discretamente alto, quindi Altezza Mezza Bellezza).

Film dedicato e ambientato a Roma, ma che Roma non rappresenta minimamente – dicono coloro che mi piacciono e che l’hanno visto – film stilizzato e convenzionale, improbabile, senza capo né coda, pieno di luoghi comuni che sembrano fatti a posta per piacere agli Americani di bocca buona. E alcuni ne hanno scritto con l’inchiostro al ferro-cianuro-di potassio, con una recensione  d’ambiente, di temperie socio-politica, sul Fatto Quotidiano (“Oscar: la grande vuotezza”) e con due articoli su Linkiesta, (“La Grande Bellezza di Sorrentino è una boiata pazzesca”, “Flaiano, Sorrentino e la Grande Bruttezza”), per tacere di altre testate.

Altro che Fellini. L’amico Roberto Dallera su Facebook ha parlato di «tremenda dissonanza con Fellini e la sua Dolce Vita, a cui tanti lo hanno accostato. Ma Fellini era il cantore di un mondo che non c'è più, e descriveva una città permeata da un unico fremito interclassista. La sua narrazione coinvolgeva gente di ogni status sociale e di ogni quartiere. Fellini descrive e omaggia quello che vede e che intuisce dietro al boom anni '60 che pervade tutto e tutti. La Grande Bellezza, invece – continua Dallera – mi pare solo il sogno di un dandy napoletano anelante di mondanità romana, che per rappresentare come sarà lui a 60 anni trova un attore che gli somigli dentro e lo fa danzare nei suoi panni. Un film già concepito nella sua mente come un gesto narcisistico e autocelebrativo. Sorrentino è il provinciale che vorrebbe entrare a Roma dalla porta principale e vi riesce tramite il più buffo degli espedienti: fare un film che a molti sembra un'altra cosa da ciò che è. In realtà lui non ha fatto altro che dare forma ad un sogno, nella speranza che quella Roma diventi davvero la sua Roma. Incurante che quella Roma non esiste, e se esiste è solo parvenza, un vuoto di esistenze disilluse e disperate di vip annoiati che recitano se stessi mentre tutto intorno crolla senza che se ne rendano conto».

Capisco il provincialismo dei cinefili, che spesso un disastroso errore dello scanner trasforma in cinofili, cioè finalmente amanti di qualcosa di vivo. Capisco il rifarsi ai pochi “nomi sicuri” della cultura media, scopiazzandoli allegramente. Capisco il vezzo di chi non ha niente da dire di reale, cioè di chi non sa leggere la realtà che lo circonda, di fingersi all’improvviso pensoso, fantasioso, allegorico, comunque almeno profondo. Capisco il grande parlarsi addosso liberatorio dopo decenni di bocconi amari e soprattutto di sale vuote. Capisco pure i soliti paralleli con Flaiano e Fellini, due intellettuali di provincia che Roma non capirono affatto. Semmai si illusero di capirla e, molto meglio di Sorrentino, ovviamente, l’adattarono come fondale scenografico ai propri sogni arbitrari, al proprio spirito visionario. Capisco perché tanti piccoli intellettuali napoletani e meridionali estranei a casa loro (già, perché non si esprimono lì dove capiscono l’ambiente?), arrivati a Roma la prendano per casa propria, per propria Patria, scambiando indifferenza e rilassatezza – tipiche d’ogni metropoli – per tolleranza, benevolenza, simpatia, comprensione. E invece non la capiscono affatto e a loro volta non sono capiti.

Capisco tutto, ma non capisco come mai si appioppi a questa messinscena della comunicazione commerciale, che altro non è che un premio dato dalla lobby dei distributori cinematografici che domina il consumistico business dello spettacolo negli Stati Uniti, un Grande Valore Culturale, mentre i nostri grandi monumenti (per contrasto uso apposta le minuscole), i nostri capolavori della pittura e dell’archeologia, i nostri libri, la nostra lingua, la nostra e l’altrui musica (vergognosamente fuori dalla scuola, insieme con l’educazione civica; e se la passano male perfino storia e geografia), e per finire l’istruzione secondaria e universitaria, non siano cultura. Mentre per i politicanti delle Regioni (da cancellare!) sono cultura anche gli Stadi di Calcio, oltre alle Sagre della Porchetta, del Tartufo, del Raviolo, e alla processione del Sacro Chiodo di N.S.G.C.

AGGIORNATO IL 7 MARZO 2014

JAZZ. Appena scomparso Parker, già era scoppiato l'hard bop, una evoluzione meno sofisticata-intellettuale-dissacrante del be bop puro delle origini, con assoli più lunghi e importanti, ritmo più incisivo, melodie più popolari (più facili) e riproducibili. Sembrava, scrivevano pochi critici superciliosi, un vendere il jazz all'industria discografica, ma... ce l'avessimo oggi (anzi, che dico? ce l'abbiamo ancora: è l'anima del mainstream moderno...). Fu grazie all'hard bop che il j. moderno si fece conoscere da un largo (si fa per dire) pubblico. E, particolare non secondario, non fu una soluzione dell'eterna avanguardia elitaria e autoreferenziale, ma il filone centrale . Quello che rivelò il grande Clifford Brown, i suoi allievi Lee Morgan (il migliore), Dorham e altri, ma anche Blakey, Silver, un Rollins che apparve un genio opposto a Coltrane, e invece ben presto deluse ripiegando sul calypso... Insomma, un grande periodo. Così grande che con un po' di svolte, ammodernamenti e acquisizioni (ora un pizzico di cool, ora una spolverata di free) dura tuttora! Gustatevi questi numerosi brani in sequenza.

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