13 settembre 2014

ETICA e responsabilità. Se muove a pietà più la morte di un’orsa che d’un uomo.

Daniza e cuccioli 2 IL FATTO. E’ stata uccisa senza nessun motivo di reale pericolosità l’orsa Daniza, nel Trentino, con un proiettile di anestetico che il povero animale non ha sopportato. E tutti i veterinari sanno che la tele-narcosi sui selvatici, specie se stremati e sotto stress come Daniza, è ad alto rischio, hanno detto a La Stampa Marco Melosi, presidente dei Veterinari Italiani, e l’etologo Enrico Alleva). Così, accerchiata da ogni lato dai forestali della Provincia, l’orsa è morta in dieci minuti, ha rivelato uno dei presenti. L’unica sua colpa? Aver fatto il suo dovere di madre: aver difeso i suoi due cuccioli aggredendo in modo lieve con un po’ di graffi superficiali, molti dei quali guariti in 3 giorni, un preteso “cercatore di funghi” che li osservava con sospetta attenzione semi-nascosto dietro un albero, come lui stesso ha confessato dopo l’incidente. Un atto stupido questa cattura, «fuori da qualunque logica ecologica ed etologica» (ha scritto l’etologo Roberto Marchesini, chiedendo giustamente le dimissioni del ministro dell’Ambiente, Galletti che aveva approvato il provvedimento), un’azione scriteriata che condanna a morte quasi sicuramente anche i due cuccioli di soli sette mesi, quindi incapaci di procurarsi il cibo. L’orsa Daniza faceva parte del gruppo introdotto allo scopo di ripopolare un Parco che, ironia della sorte, si fa pubblicità con un logo grafico che contiene proprio l’immagine d’un orso. I circa 50 orsi presenti nelle Alpi Orientali e i 50 circa del Parco d’Abruzzo sono una bella conquista naturalistica e ambientale per l’Italia, che va tutelata e incrementata.
      «Ogni animale ha un preciso compito affidatogli da madre natura – ha scritto Laura Fasano, vice-direttrice del Giorno-Quotidiano – ovvero, garantire la vita, riprodursi, proteggere le creature fragili della propria specie. Dunque, anche gli orsi. Due zampate a un escursionista che si ripara dietro un albero per vedere i cuccioli dell’orsa, sono davvero poca cosa e non sono il sintomo della pericolosità di un plantigrado… Eppure in Trentino si è voluto rispondere emotivamente alle paure ataviche di una parte ignorante della popolazione, scatenando una caccia senza tregua e senza pietà nei confronti di Daniza e rinunciando a informare seriamente la gente e a farle capire che, soprattutto, si deve ricostruire un rapporto con la natura andato perduto. Provocatoriamente ci piacerebbe sapere quante persone sono state uccise da un orso negli ultimi 50 anni in Italia. Non troveremo caduti per mano di plantigradi. Eppure fin dall’inizio la vicenda è stata viziata da un approccio scorretto che rispondeva solo ad una logica di pancia indegna di un Paese civile».

AUTORITA’ INCOMPETENTI, ESPERTI NON ESPERTI. Il comportamento delle “Autorità competenti” (e mai questi nomi sono apparsi più inadatti) del Trentino, il Presidente della Provincia Ugo Rossi e l'assessore provinciale all'ambiente Michele Dallapiccola, è grave, non solo perché sbagliato, sbrigativo, ed esempio negativo per altre Amministrazioni, ma proprio perché degli incompetenti hanno deciso contro i pareri tecnici di esperti in materia come Corpo Forestale dello Stato (che aveva manifestato a tempo debito “forti dubbi” sulla cattura, e ora ha avviato un’inchiesta), naturalisti, zoologi, etologi, compresi gli esperti italiani e stranieri di orsi. Orsa Daniza con i suoi 2 cuccioli uccisa in TrentinoUn’arroganza e ignoranza unica. Ed è davvero ora di farla finita con questi politicanti insieme sicuri di sé, decisionisti, e ignoranti in materia (forse in tutte le materie: l’intelligenza è unica). Tutto lascia pensare, poi, che ci fosse dietro una macchinazione da tempo, un disegno ben preciso per ridimensionare il numero degli orsi e in particolare liberarsi di Daniza accusandola di essere “problematica” o pericolosa. Su alcuni lati oscuri nella squallida faccenda, ha scritto un documentato articolo Maria Giovanna Devetag di “Parte in Causa” (Associazione Radicale Antispecista). Ora si scopre che perfino l’ente “scientifico” che li ha coperti e giustificati, l’ISPRA, è diretto a sua volta da incompetenti in materia. Infatti, non solo nella dirigenza amministrativa, ma perfino nel Comitato Scientifico dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, mancano gli esperti della fauna. Ci sono avvocati, economisti, architetti, chimici, fisici nucleari, agronomi, ma non c’è un solo zoologo o biologo, come ha denunciato Guido Beltrame in un articolo su Affari Italiani. Esperti “scientifici”? Ma di quale scienza stanno parlando? Siamo alla solita Italia, altro che “civile Trentino”.

LE PROTESTE. Così, una marea inarrestabile di proteste si è levata in tutta Italia, in Europa e dappertutto nel Mondo già al momento della decisione della cattura dell’Orsa madre dei due cuccioli da parte degli amministratori della provincia di Trento. E ora, dopo la morte ampiamente “annunciata”, un’ondata di commozione e indignazione si è sparsa ovunque alla notizia della sua morte.

1524576_720368951375338_6920207022739061939_nLE OBIEZIONI. Non è un po’ esagerata questa commozione, si chiedono gli ipocriti “moralisti da giornale”? E allora che dovrebbe succedere – insinua qualche cacciatore o nemico degli animali – quando migliaia di esseri umani sono torturati, feriti o uccisi da guerre, attentati, malattie? Ne approfittano i soliti cinici su Internet – coperti dalla “immunità satirica” – per insinuare che gli animalisti sarebbero sensibili sono alla vita degli animali, non a quella dell’uomo. Talvolta questo accade, è vero, ma allora fa parte dell’incoerenza personale del singolo animalista (ne parlo più sotto, al punto 2).

LA VIGNETTA SATIRICA. Fatto sta che su Facebook un sito di satira “intelligente” e umorismo impegnato (Kotiomkin) così provoca pensando di mordere le coscienze addormentate e conformistiche: «Sapevate che a Mosul la Jihad ha trucidato 400 ragazzi? Niente? Nessun ribrezzo?» E contrappone perfidamente: «La ridico così: sapevate che a Mosul la Jihad ha trucidato 400 orsetti trentini? Adesso?»

MA L’OBIEZIONE NON REGGE. Sembra una provocazione intelligente. Sembra. Ma è piuttosto qualunquistica. Lo posso dire, perché credo di essere tra i non molti che si indignano per ogni tipo di violenza e prepotenza (contro umani, animali e vegetali), però – come dico più avanti – non in modo ottuso, ma facendo le giuste distinzioni.

PERCHE’ GLI ANTI-ANIMALISTI SBAGLIANO? Per tanti motivi, che provo a elencare alla buona:

1. LA SENSIBILITA’ verso i viventi considerati dall'Uomo "inferiori" (piante e animali) è insieme rivelatrice ed educatrice della sensibilità verso i viventi considerati "superiori" (Umani). Fior di filosofi, ormai, e ben prima di Singer (già Seneca, tanto per fare un esempio), lo hanno accertato. E per vari motivi. Innanzitutto perché gli animali vanno difesi e tutelati in sé, per quello che sono e rappresentano, non certo in alternativa agli uomini. Perché sono, insieme con le piante, il nostro tramite con il mondo della Natura primigenia, l’ultimo. Ma poi anche perché l’amore per gli animali (e le piante) dimostra capacità e integrità morale da parte degli uomini migliori, capaci cioè di alti sentimenti. Poi per il carattere di esempio per i bambini e i giovani di un rapporto non-violento con gli altri viventi. Infine vuol dire che se una sensibilità esiste, questa si ripartisce ovunque. Infatti, è accertato che chi non s’indigna mai, anche per le cosiddette (a torto) “piccole” cause, come potrà indignarsi per una cosiddetta “grande” causa (ammesso e non concesso che ci possano essere differenze del genere)? Se un pittore non ha sulla tavolozza il colore rosso dell'indignazione o della protesta, come farà a usarlo quando dovrà protestare per qualunque violenza, anche su se stesso? Ecco perché è bello e nobile indignarsi per gli animali, esseri indifesi rispetto ai nostri evoluti mezzi di distruzione, mentre è ignobile non indignarsi mai per niente, come accade a quasi tutti gli uomini-massa. E perciò, comprendendo così tante motivazioni, davvero l’amore e la difesa degli animali, non solo come specie (conservazionismo scientifico), ma anche come individui (animalismo), diventa di per sé un grande obiettivo. Perfino quando si tratta di salvare un solo orso, un solo lupo, un solo animale, selvatico o domestico.

2. INVECE, un'altra contraddizione avrebbe dovuto rivelare la pagina qualunquistica di FB (ma il suo autore non sembra proprio arrivarci): occorre criticare semmai quegli animalisti che non sono coerenti nella vita quotidiana, cioè sono iper-sensibili verso gli animali, specie quelli “da compagnia”, ma poi sono inutilmente aggressivi e violenti proprio con gli umani, come parenti, amici, colleghi, estranei, se stessi (p.es. con diete strampalate ecc.), o addirittura con alcuni animali di serie B non meritevoli del medesimo amore (zanzare, mosche, api, vespe, topi, serpenti, scarafaggi, pipistrelli ecc.).
3. NON C’E’ equiparazione tra umani e animali sul piano delle responsabilità, perché gli animali non hanno colpe morali, quindi non sono giudicabili eticamente. E’ perciò anche stupido e infantile ucciderli se hanno aggredito qualche uomo. A differenza degli umani, che possono scatenare guerre, regimi dittatoriali, attentati, violenze d'ogni tipo, oppure masochisticamente attirare i violenti e stupidamente provocarli, agli animali non è possibile imputare nulla.

COSI’, a differenza degli animali, non tutti gli uomini che muoiono di morte violenta sono da compatire. Per esempio, la drammatica morte dei dittatori; l’uccisione del jiadista islamista, brigadista, rapinatore o mafioso in uno scontro a fuoco o in un attentato; la fine del ragazzotto che vuole vivere pericolosamente e si dà al teppismo o alla piccola criminalità sfidando la polizia e non fermandosi all'alt; perfino le violenze o la morte di una donna adulta che si è scelto come compagno un uomo violento seguendo un intuito o "istinto" che non può avere, anziché la ragione, possono richiedere poca o nessuna indignazione in confronto alla morte di un’umile orsa o di un lupo.

PERCHE’ quegli esseri umani avevano a disposizione una Ragione e un buonsenso che non hanno usato, perché hanno voluto vivere con la violenza o col rischio accanto. La morte – per così dire – l’hanno messa nel conto, “se la sono cercata”, mettendo oltretutto a repentaglio la vita di altri umani incolpevoli. Nulla di così aberrante possono “volere” gli animali, che fanno solo ciò che la Natura vuole che facciano. E l’uomo, se davvero è intelligente come dice, sa già in anticipo quale potrà essere il comportamento dell’animale selvatico, il cui primo compito è quello di difendere i figli piccoli. Come ha fatto, appunto, la orsa Daniza.

4. PER DI PIU’, gli eventi non sono mai in contrapposizione diretta e alternativa: i 400 poveri ragazzi vittime della jihad NON sono stati massacrati esattamente durante l’assassinio dell'orsa. I mass-media hanno avuto tutto l’agio di occuparsi diffusamente di entrambi gli episodi. E' quindi stato possibile a tutti, anche agli animalisti, provare e manifestare indignazione per entrambe le vittime, umane e animali.
5. ANZI, vista la criminalità di certi Umani e la naturale innocenza di tutti gli animali, mi piace ribaltare i termini della questione. All'opposto di Kotiompkin io dico: attenti, prima di esprimere troppa commozione, solidarietà e indignazione per la morte di un Umano a occhi chiusi. Prima occorrerebbe vedere se egli stesso non ha contribuito in modo determinante, con le sue scelte, al proprio destino, cioè se non ha “meritato” la propria fine. Il che, sia chiaro, non è proprio il caso dei poveri ragazzi irakeni vittime dei barbarici jiadhisti islamisti a Mosul.

6. IL PARAGONE UOMO-ORSO. L’orso è ormai un animale raro, che sta quasi per scomparire in Europa. Questa circostanza dovrebbe tacitare, spero, i tanti improvvisati pseudo-umanisti, in realtà ottusi, che comparano la morte di un animale – e di un animale selvatico, per di più, e di questa specie, poi – a quella di un uomo, come se si potesse fare un confronto 1 a 1 tra un animale e un individuo della specie Homo sapiens, dotato di un “io” consapevole, capace di scelte, ragionate o no, ma di cui si assume la responsabilità (insieme con tutti i rischi della vita umana). E’ sbagliato, perciò, fare i “moralisti” ipocriti e gli scandalizzati lamentando che non ci siano altrettanti cortei di protesta, p.es, quando un pedone viene investito da un’auto, o ammazzato in un regolamento di conti, o perché inseguito a ragione dalla polizia, o perché caduto in un attentato o in guerra (cosa non vera, oltretutto: questi cortei ci sono, eccome, e l’Italia è piena di monumenti ai Caduti).
      Ma è imbarazzante che questa gente non capisca che non è possibile alcun paragone tra Uomo e animale sul piano ecologico, biologico, filosofico, psicologico: sono circostanze, soggetti,  qualità, numeri, troppo diversi. Senza contare le tante “corresponsabilità” che sempre ha l’uomo, qualunque cosa gli capiti, corresponsabilità che non solo l’orso in via di sparizione, ma qualsiasi animale non ha, essendo “innocente” e “irresponsabile” per Natura. Naturale, perciò, che sia l’animale a dover essere protetto in particolar modo. Senza contare che l’abc della psicologia della comunicazione insegna che se un uomo viene catturato e ucciso la risonanza in certi casi è minima o perfino nulla. Una maggiore risposta emotiva sarebbe del resto impossibile, visto che gli uomini sono miliardi e muoiono in continuazione. Mentre se viene ucciso un leone o un lupo o un elefante o un orso, animali rari, la risonanza è massima. Di qui il diverso trattamento emotivo e mass-mediatico.

CONOSCERE E’ MEGLIO CHE UCCIDERE. NUOVE NORME PER LA CONVIVENZA UOMO-ORSO. L’orso (come il lupo, i cervidi, e perfino i cinghiali alloctoni importati dai cacciatori abusivamente) è ormai una realtà con cui dobbiamo convivere in un certo equilibrio, in un ambiente naturale come quello dell’Italia così ricco di specie vegetali – siamo i primi in Europa – ma di cui zoologi e naturalisti hanno lamentano per decenni la biodiversità animale, in particolare la “mancanza di medi e grandi predatori” al vertice della “catena trofica” (colpa dei troppi cacciatori in Italia e della loro ineducazione naturalistica), al fine di migliorare la stessa selezione naturale delle specie animali. L’analogia si attenua se consideriamo che l’orso è un animale vorace, sì, ma a differenza del lupo è onnivoro a prevalenza grani-frugivora, e solo di tanto in tanto anche carnivoro.
      Comunque, come è stata migliorata (anche se c’è ancora da fare) la convivenza tra uomo e animali predatori carnivori piccoli e medi (lupo, volpe, donnola, lince, cani randagi di montagna ecc.), così bisogna migliorare la convivenza tra uomo e orso, specie nelle nuove zone di insediamento (Trentino-Friuli-Lombardia), e portarla almeno ai livelli – appena sufficienti o mediocri – del Parco d’Abruzzo e aree confinanti (Molise, Lazio). Come? Con semplici accorgimenti pratici, e soprattutto con l’educazione dei giovani e l’informazione minuziosa e costante della popolazione (scuole, conferenze, tv, giornali, enti naturalistici, club escursionistici, associazioni micologiche e cercatori di funghi, tabelle, mappe, dépliant con precise “norme di comportamento” nella Natura ecc.), dislocazione opportuna di alberi di meli e alveari, nuove norme tecniche per gli allevamenti, e ovviamente risarcimenti puntuali per le vittime (pecore, asini, vacche, puledri).
      Se l’attuale generazione verrà rieducata alla migliore convivenza con l’orso (presenza ancora abituale in Italia fino a tutto il Seicento, come testimoniano i menù a base di bistecche di orso delle locande di posta: a Roma sopravvive l’antica Locanda dell’Orso), come è stata educata quella precedente a convivere con volpi, lupi, donnole e faine (ed era una povera civiltà agricola, per cui anche un agnello o una decina di galline erano un valore!), il “problema orso” si attenuerà fino a essere dimenticato. Dopotutto, Paesi civilissimi come gli Stati Uniti hanno trovato senza panico tra la popolazione il modo di convivere passabilmente e con bassi rischi medi perfino con grizzly, serpenti mortali e coccodrilli.
      Basta conoscere, basta usare la normale prudenza, per prevenire e ridurre i rischi, il che vale per ogni attività umana (e una vita senza rischi non esiste). Per l’orso, infine – ci perdonino i puristi zoologi conservazionisti – qualche furbizia alimentare non guasta, come insegnano i bravi esperti del Parco d’Abruzzo. Si sa che è un ghiottone, attratto da formaggio, miele e frutta (soprattutto mele): possibile che i Trentini non lo sappiano? Che ci vuole a piantare meli e a “dimenticare” sapientemente queste leccornie sui rami bassi degli alberi nei valloni più segreti e meno antropizzati che frequenta? Per un pezzo di formaggio e un barattolo di miele intravisti attraverso le finestre un orso abruzzese è stato capaci di spaccare il vetro. E' successo in Abruzzo. Ma lì, dopo anni di incomprensione, proteste e panico ottuso tra la popolazione ignorante, finalmente l’orso è stato capito, e oggi altro che stereotipo dell’ “orso cattivo” delle favole, l’orso marsicano cade vittima solo per la bravata isolata e impotente d’un cacciatore ubriaco.

CONCLUSIONI. La vignetta satirica avrebbe potuto avere in altre occasioni, non ora, una sua logica: battere il conformismo, la mancanza di senso delle proporzioni, l'emotività contagiosa e gregaria, l’adesione a occhi chiusi a tutte le campagne di sensibilizzazione (internet, Facebook), soprattutto l’incoerenza di alcuni, solo alcuni, animalisti che da una parte vedono in modo infantile e umanizzante l’animale come un orsacchiotto-giocattolo, un innaturale peluche da coccolare, dall’altra – come tutti – schiacciano senza pietà la mosca e la zanzara, urlano se un pipistrello o un topo entra in camera, o un geco si arrampica sul muro del terrazzo, e chiamano i pompieri se un innocuo biacco – neanche una “pericolosissima” vipera – striscia in giardino. Vero, verissimo, lo abbiamo tante volte denunciato, apparendo per questo antipatici, anzi odiosi, che in Italia è la giusta ricompensa per l’onestà e la razionalità.
      Però, tutto questo non c’entra niente con quello che è accaduto stavolta. Visto in sé, l'episodio dell'orsa Daniza, per la plateale inadeguatezza e insensibilità ottusa dei “provinciali amministratori della Provincia” di Trento, meritava eccome questo coro di sdegno, nient’affatto conformistico. Stavolta la gente ha fatto benissimo a protestare così. Anzi, è stato bello ed esaltante. Proprio perché l'orsa aveva non solo subìto ma anche fatto qualcosa (qualche unghiata ben assestata all'importuno che si nascondeva dietro un albero, chissà a quale scopo…). In fondo è stato come se miliardi di zanzare-tigre avessero punto dolorosamente tutti i politici della Casta. Alla gente è piaciuto, anche a quelli che hanno paura delle zanzare. Insomma, la gente ha capito. E le vittime di Mosul non c'entrano nulla. E infine la satira è infondata anche per un altro motivo: al contrario di quanto dice la vignetta satirica, tutti ci siamo scandalizzati e indignati per le stragi della criminale jihad islamica.
      E allora, dov'è il problema? Non esiste. Solo fumo, insinuazione fantasiosa. Ecco perché la battuta satirica va definita per quello che è: pura provocazione cinica e qualunquista contro la sensibilità popolare.

IMMAGINI. 1-2. L’orsa Daniza con i suoi due cuccioli. E’ stata catturata e uccisa dall’anestetico il 10 settembre 2014. 3. La provocazione del sito Facebook.

JAZZ. I Got Rhythm, brano storico registrato in jam session all’Embassy Auditorium di Los Angeles nell'aprile del 1946 mette insieme musicisti dello swing con Parker e il nascente rivoluzionario be-bop (in realtà una evidente “evoluzione). I musicisti: Lester Young, tenor Sax, Charlie Parker, alto sax, Willie Smith, alto sax, Coleman Hawkins, tenor sax, Buck Clayton, trumpet, Irving Ashby. guitar, Kenny Kersey, piano, Billy Hadnott, bass, Buddy Rich, drums.

AGGIORNATO IL 17 SETTEMBRE 2014

04 settembre 2014

BORIS VIAN, dilettante di genio, re dei goliardi, polemista e iconoclasta snob.

Boris Vian, Je suis snobPERSONAGGI

IL MITO DI  BORIS VIAN

*** Tutto

è  jazz ***

Chi è Vian? Un grande goliardo, che però ha studiato da ingegnere, corteggia le attricette, però suona la tromba dixieland e vuole scimmiottare il grande Bix Beiderbecke. Polemista sarcastico e intellettuale intransigente, eclettico, provocatorio e iconoclasta come un Sartre del Quartiere Latino, però anche scrittore, attore, cantante-autore di canzonette. Ma col fascino mondano d’un Alain Delon. Una raccolta di scritti fa riscoprire anche in Italia un personaggio davvero unico che è scomparso a soli 39 anni nel 1959, e in Francia è un mito da decenni anche per i giovani che non lo hanno mai letto. Fatto sta che grazie a Vian e al chitarrista zingaro francese Django Reinhardt la borghesia europea diventa fanatica del jazz.

NICO VALERIO, Il Globo 7 marzo 1983..

Vian trompinette e musical «Vagabondo elegiaco», truand élégiaque, ha detto di lui Lucien Malson, critico di Le Monde. E intendeva dire poco meno che «barbone-poeta», uno di quei personaggi magici e sbrindellati di Kerouac che a forza di fuggire finiscono agli occhi deì lettori per diventare eroi carismatici, maestri di vita.

I suoi amici d'allora lo vedono ancora che corre a zig-zag come una formica nel labirinto di vicoli da un capo all'altro del Quartiere Latino, da una boite di musica all'Hot Club de France, da un caffeuccio fumoso ad una casa discografica. Ansioso, agitato da una sorta di interiore fuoco etereo, il tempo sembra scottargli. Anche lui, come i musicisti americani, gli estroversi copains e le magnifiche jeunes-filles che ama, è un animale notturno, un rapace, e nel suo habitat naturale, in quel «villaggio» dì St. Germain des Prés di cui è l'animatore e il personaggio più noto, che ha scoperto come topos ideale della propria vicenda umana, ci si trova benissimo, purché, s'intende, dal tramonto in poi.

Boris Vian a ventìtré anni dalla sua morte rischia di diventare anche da noi una figura popolare. Ed è naturale. Non sono stati Savinio e Flaiano, citati ormai più di La Rochefoucauld, ad aver insegnato ai nostrì editori che il Grande Dilettante, l'eterodosso di genio, l'esprit individualissimo e fuori schema, incuriosiscono il pubblico e la critica, danno prestigio e, in fin dei conti, si vendono bene?

boris_vian_plutoniano_en_saint_germain_des_pres_3512_630xLargo, dunque, agli irregolari della cultura, come Vian. Solo che questa volta l'outsider di turno, non è affatto uno sconosciuto, ma uno dei più mitizzati protagonisti degli annì '50, non solo in Francia. Ragazzo prodigio, critico jazz, discografo, romanziere, conferenziere di costume, giornalista, soggettista, suonatore di tromba (di «trompinette», come amava ripetere con uno dei suoi neologismi ironici), ingegnere, bricoleur, inventore, play­boy, autore di testi teatrali, di canzoni e di chissà quante altre cose, l'eclettico Boris Vian, ragazzaccio maleducato che sputava sui busti marmorei dei Grandi di Francia e odiava accademie e celebrazioni, si rivolterà sicuramente nella tomba nel sentirsi incensato co­me rappresentante della cultura euro­pea del dopoguerra. Lui che sembrava tagliato, semmai, per dirigere «Il Ma­le» o «Hara-Kiri», tanto era l'accani­mento con cui amava ridicolizzare i Grandi.

Boris Vian e Magali Noel Eppure Boris Vian non è conosciuto da molti in Italia, se si eccettuano ovviamente i cultori di letteratura francese e i critici jazz. In Francia, al contrario, basta fermare un qualsiasi passante per sentirsi elencare a menadito i titoli di tutti i suoi romanzi. Non parliamo poi degli studenti. Per un misterioso processo di identificazione di massa, da Calais a Mentone le scolaresche di liceo ‑ che ignorano Leopardi, Manzoni e Nietzsche a causa dello sciovinismo tipicamente francese dei programmi scolastici ‑ sbavano ancor oggi per questo poco di buono della cultura parigina, con la fama di intellettuale maledetto, polemista fazioso e méchant come pochi, dal volto pallido e affilato che lo fa simile, stranamente, a Piero Gobetti; ma nello stesso tempo ineffabile Grande Goliardo, lingua tagliente peggio d'un enciclopedista, bello e protervo come James Dean, nobile e coraggioso come Henry Fonda giovane, corroso dalla fretta di vivere e dalla voglia di autoannientarsi come il Grande Gatsby. Sì, proprio un intellettuale "d'azione" che sembra uscito dalla penna di Francis Scott Fitzgerald, lo scrittore della «età del jazz». E guai a considerarlo, come si fa da noi, un «minore».

Per questo ci sorprende un poco la discreta fortuna che sta avendo un esangue e dimesso libretto di Vian che la Emme Edìzioni ha pubblicato nella collana Il Formichiere («Jazz Hot», Scritti sul jazz: 1946‑1956, pag. 148, L. 12.000); ben poca cosa, certo, rispetto alle palpitanti «Croniques de jazz» uscite nel '71 nelle edizioni tascabili "10‑18", in Francìa, con prefazione di Malson. Quelle erano «cronache acute, vibranti e micidiali come frecce». Eppure queste poche pagine mal tradotte, una selezione troppo stringata e poco felice di articoli apparsi sul mensile di musica «Jazz Hot» appena sufficiente a delineare il Boris Vian polemista, sono un campionario di ritratti ironici di musicisti e critici, commenti su festival e concerti, diatribe all'acido prussico, recensioni pretestuose, interviste vere e immaginarie (una è dedicata al redivivo Goebbels, riciclato dalle Nazioni Unite, dopo Norimberga, come addetto stampa e propaganda della sezione jazz dell'Unesco ... ).

Boris Vian alla trompinetteE fin qui niente di eccezionale. Si direbbe uno dei tanti testi minori per "addetti ai lavori", di scarso interesse per il largo pubblico. Ma così, non è, perché questo libretto apparentemente insignificante cade proprio nel punto in cui si incrociano due tendenze del pubblico: la tendenza a divorare qualsiasi titolo che abbia a che fare con la musica jazz, dopo l'apprendistato un po' caotico dei concerti e festival negli anni scorsi, e la riscoperta del «mito» Vian.

Piace soprattutto la novità dello stile "scandaloso" usato da Vian e quella misura, in qualche modo letteraria, quella profondità, quello spessore fantastico, che riportano ad autori ben più noti al largo pubblico. Così, anche un opuscolo può egregiamente servire da pretesto per chi non aspettava altro che di riscoprire insieme il critico, linguacciuto, il novelliere fanciullesco, il nottambulo mondano. Tre occasioni in una, insomma; ma l'ultima, ammettiamolo, è la più appetitosa in questi tempi di rivalutazione della biografia e del privato e dell'antica ideologia edonistica del vivere quotidiano.

Boris Vian ritrattoQuest'uomo giovane e vitale, di cui ci accingiamo a scorrere le poche pagine tradotte in Italia di critica fantastica scritta col mero pretesto della musica, edonista lo era davvero. Non potremmo comprendere altrimenti perché i giovani francesi del dopoguerra, e quelli di oggi che amano identificarsi nei coetanei d'allora, si siano scoperti simili a Boris Vian. Gli anni Cinquanta, dopotutto, erano gli anni della pace, della ricostruzione dei patrimoni e delle anime. Ubu Roi era morto in un bunker; il fascismo, la guerra, le privazioni, erano ricordi sgradevoli da cancellare. Come gli anni Trenta, dopo la Depressione, anche gli anni Cinquanta, dopo la seconda guerra mondiale, sono anni dì ottimismo, di nuovi piaceri e, guarda caso, di riscoperta della musica jazz. Il gran mazzo di carte viene mischiato di nuovo, incomincia un nuovo gioco.

Ecco il mito dell'età d'oro della «rive gauche», gli anni felici della Parigi del dopoguerra, con la scoperta dell'America e del jazz, gli Hot Clubs, le polemiche sul be-bop e la musica di Parker, la querelle bianchi-neri (Hugues Panassié, decano della critica jazz francese, aveva insegnato a disprezzare i musicisti bianchi…), la chitarra struggente dello zingaro Django Reinhardt, infine le caves di St. Germain des Prés, veri ipogèi della conoscenza, dove incontravi lo swing nel chorus d'un sassofonista dalla pelle ricca di melanina, ma anche il filosofo esistenzialista Jean Paul Sartre, più dì rado la sua compagna Simone De Beauvoir, molto spesso Juliette Gréco che allora fungeva da musa o dea delle notti parigine e, cantante-attrice qual era, amava atteggiarsi a intellettuale e anticonformista.

Boris Vian alla trompinette abito a righeBoris Vian impersonava, impersona ancor oggi, questo mito notturno della controcultura sotterranea che pareva uscire col fumo delle sigarette e il tanfo dell'alcool dai tombini delle strade e dagli sbocchi d'aria delle cantine consacrate a quella drammatica «musica sincopata» che allora l'Europa scopriva come la propria vera voce. Anche come personaggio mondano voleva scandalizzare, ma con spensierate goliardica.

Amava le donne, e i cronisti mondani di France Dimanche, che gli attribuivano le più disparate avventure sentimentali, lo braccavano per alimentare con le sue sconcertanti confessioni la column di indiscrezioni piccanti su questa o quell'attrice. Ebbe anche una travolgente storia d'amore, sembra, con la star Magali Noél, a cui dedicò due sue canzoni ironiche, con giochi di parole non-sense: «Rock (che in inglese vuol dire anche ciottolo) des petits cailloux» (Rock dei ciottoli) e «Fais-moi mal, John» (Fammi male, Johnny). Compone la musica delle canzoni come scrive i suoi pungentì elzevìri: di getto, tanto per ferire. Per l'orchestra di Henry Cording, alias Henri Salvador, scrive «Va t' faire cuire un oeuf, man» (Va a farti cuocere un uovo, amico), ad uso del playboy un po' «sottotono», come uno di quelli cantati da Fred Buscaglione.

Sartre, Vian, la moglie e la BeauvoirEra diventato un «caso letterario» per i critici e i suoi romanzi dai titoli iconoclasti e dal tono surrealista («J'irai cracher sur vòs tombes», Sputerò sulle vostre tombe, «L'arrache-coeur», strappacuore, e «L'écume des jours», schiuma dei giorni) gli creano la fama di scrittore «maudit», maledetto, che emana odore di zolfo. La borghesia parigina è scandalizzata eppure legge i suoi libri, eccome. «Le sue opere migliori, però ‑ confida nel '49 ad alcuni amici italiani Charles Delaunay, un collega critico ‑ sono quelle ancora non pubblicate»

Troppo per le spalle d'un uomo solo? Ma no. Vian («Vernon Sullivan» per le signore che leggono le sue novelle, «Michel Delaroche» o «Otto Link», talvolta, per i lettori delle sue recensioni musicali) fa dell'eclettismo il suo modo rivoluzionario di vivere e come un futurista del primo '900 si diverte a progettare macchine fantastiche, ma non del tutto inutili. Celebre il «pianoktail», ovvero un pianoforte per cocktail, descritto minuziosamente nel suo primo romanzo, tanto che si riuscì addirittura a brevettarlo. Un pianoforte con cui, pigiando i tasti, si producono insieme infinite variazioni di jazz e cocktaìl liquorosi d'ogni tipo, rispettando – s’intende – inesorabili affinità storiche, come quella tra il blues nero e il gin, per esempio. E così, perfino il bricolage viene piegato all'ìronia, con la pesante allusione al legame tra musica americana ed etilismo cronico. Solo un Boris Vian sapeva essere così teatralmente e gioiosamente cinico.

Boris Vian e vecchia automobile (copertina disco)Era innamorato del jazz, non viveva che per il jazz, non capiva né si esprimeva che col jazz» ricorda Henri Salvador nel libro di Noél Arnaud dedicato a Vian («Vies parallèles»), e infatti, conferma Malson, «se il Vian romanziere si disinteresserà un giorno dei suoi romanzi, il Vian critico di jazz amerà il jazz fino alla morte». Ed era espertissimo. «Talvolta rivelava agli stessi tecnici americani delle case discografiche alcune matrici di dischi che avevano dimenticato negli archivi», ricorda Dénis Bourgeois, un ex-dirigente discografico. Notava tutto, rettificava gli errori cronologìci, correggeva date di registrazione e nomi dei musicisti. Non meraviglia, perciò, che negli ultimi anni abbia lavorato come consulente artistico alla Philips e alla Barclays, nel settore dischi. Ma il suo idolo era Bix Beiderbecke e la sua aspirazione ‑ il suo capriccio di bambino trentenne ‑ suonare la tromba come la suonava lui.

L'allampanata sagoma di Vian diviene familiare, perciò, nei locali notturni tra i gruppi amatoriali dello stile New Orleans-Chicago. Lo ricordano per il suo strano modo di poggiare l'imboccatura della tromba all'angolo delle labbra come se anziché suonare volesse fumare la pipa. Irriguardoso e ironico anche in questo. Dicono che il suo sound fosse «dolcemente virile», il suo fraseggio quasi vivaldiano, come quello di Bix, ma con un tono in più di malinconia.

Boris Vian canzoni e Le diserteurEsagerazioni, senza dubbio, perché come musicista Vian era e restava un dilettante. Ma un dilettante di gusto, questo sì. Suona nelle orchestre di Claude Abadie e di Raymond Fol al Tabou di rue Dauphine, poi nella propria al Club St. Germain in rue St. Benoit, due cabaret che aveva fondato egli stesso. Smetterà di suonare solo su ordine del medico; lui che perfino in questo era riuscito a imitare i neri del jazz: nella salute cagionevole e nella consapevolezza di morire a meno di quarant'anni. Muore, infattì, a trentanove anni, nel 1959. E, come era successo venticinque anni prima per Bix, la sua fine prematura contribuisce ad alimentare il mito.

Per tutti, al di là e al di qua della Senna, Borìs Vian resterà quel giovane pallido e svìtato che volle morir giovane per imitare i neri del jazz, il matto che s'era messo in testa di fare del Quartìere Latino un altro quartiere delle «luci rosse» di New Orleans o una seconda South Side di Chicago. E anziché come scrittore alla moda, amici e ammiratori lo ricordano con la cornetta alle labbra, inquietante personificazione del «giovanotto con la tromba» («The Young Man with the Horn»), celebre romanzo biografico di Dorothy Baker dedicato a Leon Bismarck «Bix» Beiderbecke, il suo modello, libro che proprio lui aveva tradotto dall'americano. E l'agiografia, si sa, si nutre di leggende. Nessuno degli amici ha mai dubitato che l'ultimo brano che Vian ascoltò in vita sia stato quello stupendo assolo di Bix in «Criyn' All Day» che lui amava tanto. Gli esoterici e gli occultisti della jazz-scene parigina trassero da questo e altri indizi motivo per ìpotizzare una continuità ideale e perfino biologica tra Bix e Vian. Alcuni non ebbero ritegno nell'adombrare complicati e macabri processi di reincarnazione e di metempsicosi; ma non furono creduti. Per gli altri, i più, con Boris Vian se ne andava solo un truand élégiaque, un poeta senza casa.

Boris Vian e Juliette Greco Dov'è il nuovo nelle critiche di Vian? Nello stile, certo, ma non solo. Mai si era visto, prima di lui, un critico della musica extra-europea che confonde così bene le carte in tavola da apparire piuttosto uno dei musicisti in questio­ne. E che polemista violento, altro che distaccato esegeta. La sua prosa è spes­so un amalgama di biografismo, tocchi di follia surrealista, notazioni critiche, cadute nel maelstrom dell'humour nero, cronaca, sarcasmo. Nessuno è co­sì grande da sottrarsi alla risata sghi­gnazzante, al crudele sberleffo, si tratti del critico «reazionario» Panassié (sua abituale «testa di turco», definito «Il Papa» o «L'Archimandrita di Montau­bon»), d'un impresarìo, d'un giornali­sta «troppo occupato a scrivere per es­sere anche informato», o d'un caro a­mico che suona il sax per gioco. Come in tutti i grandi polemisti, la sua scrit­tura è sostenuta da un'allegria quasi in­fantile.

E qual è l'ideologia critica, se ve n'è u­na, di questo critico tanto umorale, co­sì come emerge dagli scritti ora tradot­ti in italiano? E' una concezione vitali­stica, ottimistica, quasi fanciullesca, con molte venature romantiche. La musica, il jazz, non è storia né musicologia, ma mìto, favolistica, ricordo. Il jazz è visto come l'arte individualista e libertaria per eccellenza, insieme rìvoluzionaria della forma e conservatrice della cultura. E' la colonna sonora portante della palingenesi, della rifondazione d'un mondo nuovo, privo di accademie, che riconosce come vere virtù la spontaneità collettiva dei neri di New Orleans e la fantasia fredda di Charlie Parker.

Le biografie sono eloquenti. Pur attraverso una lente scanzonata deformante, il musicista nero è visto ingenuamente come l'eroe “buono e maledetto” del film western. Egli è l'Artista, l'idolo, attorno a cui ruota non solo la scena del jazz ma la storia di questo secolo, tout court. Il jazz, insomma, come motore ultimo del mondo.

E la critica? Altro che sereno distacco del «Polifilo» rinascimentale o degli eclettici illuministi: per Vìan anche 1a critica jazz può essere opera d'arte e vissuta come un'opera d'arte, intensamente. Dopo il musicista (nero, s'intende, ché su questo punto Panassié non è contestato) nella scala dei valori c'è subito il critico, vero Demiurgo tra Dio gli uomini, abile maieuta capace di cavar swing perfino da un seminarista dilettante di violino. E il secondo vive in modo non meno romantico e pericoloso del primo, come un arbitro di rugby che vada a cacciarsi di proposito in tutte le mischie pur di esser sfiorato dall'azione, dalla vita, e riscattare così la propria forzata condizione di giudice passivo, di delegato voyeur. Ecco perché, ad un certo punto del partita, infrangendo le regole del gioco, l'arbitro impazzito comincerà a dare disperati calci al pallone e pretenderà di segnare dei goal. E Vian diventa cornetta dixieland.
NICO VALERIO

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L’uomo di cultura, lo scrittore, l’autore di testi
UNA COLTA E BELLA RIEVOCAZIONE ALLA RADIO
di MASSIMO RAFFAELI, Wikiradio (Radio3 Rai), 10 marzo 2015
(ascoltabile qui: durata: 28’47”)

Su Radio-Tre (Wikiradio) la rievocazione “alta”, ma purtuttavia brillante ed esauriente di Vian da parte del bravissimo critico Massimo Raffaeli. E' del tutto complementare al mio ritratto giovanile di oltre trent'anni fa, che non poteva che puntare sul jazz essendo io allora critico jazz di quel giornale. Invece punta più sul Vian “uomo di cultura”, scrittore o autore di testi, amante del genere “noir” (gialli) Anche se azzecca alcune definizioni psicologiche extra-letterarie, come “eterna adolescenza”, che poi significa un continuo ardore, che in lui era “ardore dell’immaginazione”, ma anche “sperpero di talento” (detto da un famoso scrittore francese), e “Zelig della letteratura”. Ci metto la firma (NV).

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Par condicio
MA I CONSERVATORI NON LO POTEVANO SOFFRIRE…

Ve lo immaginate un Vian trasportato in Italia – in quegli anni, poi – e fatto nascere, mettiamo, a Isernia o a Ragusa, a Frosinone o a Bergamo? No, impossibile. I nostri preti e militari (molti punti in comune) lo avrebbero azzittito, denunciato e fatto arrestare. All’Italia bigotta, conservatrice e provinciale, quindi seriosa senza essere seria, un personaggio irriverente e irrispettoso come Vian non poteva che risultare ancora più  odioso che all’austera Destra francese, che comunque riuscì a boicottare e censurare alcune sue opere, come la canzone Le deserteur (tradotta e ripresa in Italia da Luigi Tenco e Ivano Fossati). Ma, militari gaullisti a parte, la Francia ha avuto, dopotutto, un Charlie Hebdo, noi no. Col Fascismo la Destra italiana perde perfino quel barlume di interesse, sia pure contestativo e provocatorio, per la cultura che aveva espresso il suo Futurismo e, ormai perbenista, piccolo-borghese e clericale, non accetta né il gioco né l’ironia, tantomeno nei propri confronti. Ne è un esempio la seguente, raffazzonata, stroncatura all’intero personaggio Vian, che apparve sul Borghese. Vian era accusato di scrivere romanzi pornografici, di essere nichilista e di suonare il clarinetto (!), tradendo così – è un evidente retro-pensiero – la rispettabile e seria professione borghese di ingegnere. In fondo è quello che pensava anche la madre di Gadda. Fulchignoni nel suo libro usa ironia e umorismo a più non posso, ma contro gli altri, come arma polemica. Però non tollera che “altri” facciano lo spirito o siano irriverenti contro di lui, cioè contro i conservatori o reazionari. Sempre così la Destra: è ironica e sfottente con gli altri, ma seriosa e incapace del minimo umorismo quando parla lei. Vian è un dilettante? E perché Fulchignoni no? Uno che aveva la fortuna di stare a Parigi per lavoro e nei ritagli di tempo di divertiva a scrivere per sé o per Il Borghese note di costume in cui sfotteva tutti. La Francia (a differenza dell’Italia, allora ancora contadina) è giudicata “frivola”, i giovani che perdono tempo coi dischi e i juke-box (mentre i nostri all’epoca ancora bazzicavano le parrocchie o le sezioni del Pci) sono degli “imbecilli”. Veramente in Italia lo sono ancora più oggi, ma proprio per questo. Ma lo erano anche se ascoltavano Bix o Parker sui dischi? Ma Fulchignoni odiava qualunque musica che non fosse la lirica (però, per essere coerente, non su dischi, ma solo in teatro), e per lui sicuramente Parker o Nilla Pizzi pari sono. Naturalmente, il “timore” che in Italia qualche editore potesse avere l’ardire di tradurre Vian già negli anni 50 si è dimostrato infondato. Ecco il brano incriminato (NV):

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RILANCIO DI VIAN

ENRICO FULCHIGNONI, “Il cavallo a dondolo”, ed. Il Borghese 1970, pp. 109-110.

Sette anni fa, nel 1959, moriva a Parigi, trentanovenne, uno strano personaggio: Boris Vian, suonatore di clarinetto [sbagliato: era la tromba, NdR] ingegnere dell’Ècole Centrale, autore di romanzi pornografici e di commedie moraleggianti.

A sette anni di distanza, con una di quelle campagne pubblicitarie di cui Parigi possiede il poco invidiabile segreto, ecco ritornare, in forza, alla luce, confusamente, testi, spartiti, manoscritti, tratti caoticamente e misteriosamente da quell'oblio al quale il tempo giustiziere li aveva, oh, quanto bene!, condannati.

Che cosa è successo? Quale necessità c'era, in pieno 1966, di fare rifriggere i proiettori della moda su questo poveraccio? Nessuno lo saprà mai. O forse sì. Il segreto è una certa irresistibile tendenza alla frivolità cui la Francia non riesce a sottrarsi neanche nelle sue ore più calamitose.

Deriva anche dall'accresciuto numero di giovani imbecilli che trascorrono le ore davanti ai microsolchi e ai juke-box. L'imbecillità è una sorta di debolezza che si ripercuote nei giudizi. L'imbecille ha soltanto passioni limitate: quindi è condannato a ripetere, a imitare. Le sue opinioni non riescono ad avere consistenza, i suoi piaceri non possono essere altro che meccanici e senza direzione.

Autori come questo Boris Vian, sono la terra promessa, sono i perfetti punti di approdo per le torme di teste deboli che si aggirano per le trenta redazioni di settimanali e riviste cosiddette letterarie di Francia, in questa stagione di vacche magre.

Ma vogliamo dirla tutta? Quanto volete scommettere che non mancherà all'appello il solito editore italiano, disposto ad affrontare il capestro pur di assicurarsi « la totalità » delle opere di questo genio recuperato all'oblio?
ENRICO FULCHIGNONI

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CONVEGNO SU VIAN. Su Vian, la sua figura, il suo ruolo culturale, i suoi libri, si è tenuto a Pitigliano, a cura di Stampa Alternativa, un interessante convegno, di cui abbiamo riferito in questo articolo.

IMMAGINI. 1. Manifesto di Une Trompinette au Paradis, spettacolo musicale di Savary dedicato a Vian. 2. Copertina del libro Je Suis Snob. 3. Vian in una curiosa posa. 4. Con la cantante e attrice Juliette Greco. 5. Mentre suona la “trompinette”, come chiamava ironicamente tromba e cornetta. 6. Ritratto a colori. 7. Alla “trompinette” in completo grigio a righe. 8. Doppia coppia intellettual-mondana tipicamente Quartier Latin: Jean-Paul Sartre, Boris Vian, Michèle Lèglise Vian e Simone de Beauvoir al caffè Le Procope. 9. Copertina di un suo disco in cui cantava egli stesso le sue canzoni. 10. Una raccolta di testi di 25 sue canzoni, tra cui Le déserteur (Il disertore) che fece scandalo ma ebbe anche molto successo. 11. Con l’attrice Magali Noel.

AGGIORNATO IL 11 MARZO 2015