30 settembre 2006

MUSICA. Il jazz si può insegnare? La verità sul boom delle scuole popolari.

Scuola musica Testaccio anni 70 SCUOLE POPOLARI IN MUSICA

TI BOCCIO: HAI FATTO UN ACCORDO DI DESTRA

In Italia pullulano le scuole di jazz. Ma a che cosa servono? Il jazz si può insegnare? Jazzisti si nasce o si diventa? Andiamo per ordine: intanto vediamo come sono fatte queste scuole

NICO VALERIO, L'Espresso, 10 dicembre 1978

Roma. Le chiazze di sangue sulle pareti sono state imbiancate di calce. Dell'antico luogo di tortura e violenza non rimane quasi nulla, forse cattive vibrazioni, e di notte l'eco di qualche sinistro muggito o d'un belato agghiac­ciante, tanto per fare atmosfera. Re­stano gli "uncini", orribili ganci al soffitto per le vittime appena uccise e a cui – aggiunge una biondina con humour nero – finiranno, prima o poi, “suspendus” alla Villon, professori ri­tardatari e allievi assenteisti, Già, chi lo direbbe, siamo proprio in una scuola.

Alle pendici del "monte" Testaccio, un' antica montagnola di detriti ("te­stae" per i romani erano i cocci), ne­gli umidi stanzoni d'una dipendenza del mattatoio, ora proprietà d'una ban­ca, funziona abusivamente una scuola di musica che ha fatto epoca, solle­vando accesi entusiasmi e polemiche spesso ingiustificate, mettendo a rumo­re il mondo degli asfittici Conservatori e l'inquieta jazz-scene italiana. Veniva rimproverato ai giovani insegnanti di Testaccio di fare più politica che in­segnamento musicale, anche il carat­tere assembleare delle decisioni, perfi­no di quelle sulla didattica, dava fasti­dio. Ma come, allievi e insegnanti nella stessa commissione, a decidere programmi e metodi? All'inizio sem­brò un concentrato di "sessantotti­smo" in ritardo, utopia realizzata al cento per cento.

vittorini tommaso testaccio Nei primi tempi, si era ancora nel 1975, la cosa fu presa un po' sotto­gamba dai critici jazz, gli unici ad averne avuto sentore per ragioni professionali. Il jazz si può insegnare?, si chiesero i più scettici. Certo, da an­ni in America funzionavano egregiamente decine di scuole di jazz e di musiche "aliene", ovvero di matrice non europea. Dalla Julliard e dalla Berkeley erano usciti i giovani tecno­crati del sax e del trombone, intere sezioni di fiati per le orchestre di Woo­dy Herman e di Kenton. Anzi, si par­lava anche, con una smorfia di disgusto ("tipiche americanate"), dei metodi da Berlitz School, da corso in­tensivo di lingue, utilizzati in qualche scuola.

Prime_lezioni_TestaccioIn un salone tanti box individuali con oblò di vetro, strumento e micro­fono. L'insegnante si collega elettronicamente con ognuna delle cellette monacali, veri containers musicali do­ve il principiante sudando per il caldo e l'emozione cerca di dare il meglio di sé. « Lei, sig. Johnson, va benino ora; più staccate quelle note, sig.Ter­ry », gracchia in cuffia il sadico prof. elettronico, commutando di continuo la manopola sul cruscotto. Con questo sistema un solo insegnante può accu­dire a 20-30 allievi per volta. Roba da "polli in batteria" obiettavano in Italia, scandalizzati dall'ardire tecno­logico degli americani. E poi, pensava più d'uno, jazzisti si nasce non si di­venta.

Il successo della prima scuola libe­ra di jazz e di musica, coordinata dal bassista Tommaso (300 iscritti già nel secondo anno), fu perciò interpretato come un'iniziativa alternativa tipicamente italiana, andata una volta tan­to a buon fine. Un tocco di francesca­nesimo, molto anticonsumismo, pochis­simi soldi, e tutti i poteri all'assemblea degli allievi. Dopotutto era la prova che anche il jazz si può insegnare. Allora è stato il "boom". Per incan­to, come se "radio-musica" avesse dif­fuso a 360° un messaggio concordato, sono sorte ovunque, specie nel Centro­-Nord, decine di scuole. Prima le più politicizzate, o di avanguardia, dove si partiva da Coltrane ignorando ma­gari lo swing e perfino il be-bop di Parker, poi quelle più solide per basi economiche e metodi didattici, sul ti­po dell'Istituto nazionale di studi sul jazz, messo su a Parma da Lorenzo Cuneo, considerata la migliore scuola made in Italy; infine i corsi e i semi­nari locali gestiti., dall'Arci, il centro ricreativo vicino al Pci, che si è but­tata a pesce su un filone così promet­tente e, ciò che più conta, di forte aggregazione giovanile.

Insegnare solo jazz o no?, si sono chiesti subito i responsabili delle scuo­le. E' prevalso il compromesso di evi­tare, talvolta, la parola "jazz" nell'in­testazione pur di riservare alla cultura musicale afro-americana la parte del leone. Gli insegnanti, del resto, ven­gono quasi tutti dal jazz professiona­le: Fatto sta che le scuole popolari di musica e quelle strettamente "jazz oriented" sono quest'anno una trenti­na. Un fenomeno nuovo, che non ha precedenti neanche all'estero, e che tutt'al più può confrontarsi con l'ana­logo "boom" delle radio private.

La proliferazione è stata così rapida che, la cultura ufficiale, gli intellet­tuali, i responsabili dei partiti; anche di sinistra, non hanno fatto in tempo a farsene un'opinione. Le incompren­sioni, anzi, non sono mancate. Il re­sponsabile della musica per il Pci, Luigi Pestalozza, in un articolo sull' "Unità" ha definito riduttivamente quella di Testaccio solo «una scuola pri­vata » e soltanto di recente, quando ormai l'Arci cominciava a diffondere a ragnatela i suoi corsi di musica, ne ha ammesso la rilevante funzione so­ciale. In pratica una forma di "sur­roga" nei confronti dello Stato.

Quello, poi, che ha meravigliato sia i vecchi loggionisti della Scala che gli amatori quarantenni di jazz, già messi sull'avviso dalle strane code davanti ai botteghini delle sale da concerto e dalle adunate oceaniche di Umbria ­jazz, è stato che dei ventenni avessero una fame così pantagruelica di quelle che Louis Armstrong chiamava «cacatine di mosca», cioè le note musi­cali, ma anche di spartiti e arrangiamenti. Dopo una contestazione decen­nale alla scuola, anzi allo studio, non era pensabile che una classe di ven­tenni facesse la fila per iscriversi ad una scuola, neonata, che non rilascia diplomi e non è certo uno "status symbol", neanche per i giovani.

Le esigenze però sono reali. Di jazz nei Conservatori nessuno vuol sentirne parlare. Tuttora vi domina uno spiri­to altezzosamente eurocentrico, che e­sclude non solo il jazz ma anche le musiche dotte orientali, per non par­lare della musica popolare. Ma anche la musica colta europea viene insegna­ta malissimo: dopo tre anni di frequen­za capita che un allievo cominci a ma­lapena a "leggere" con lo strumento. A causa dei pregiudizi romantici ab­bondano i corsi di violino e piano­forte, mentre scarseggiano quelli per fiati, specie sassofoni – richiesti da chi pro­viene dalla provincia, forse per l'effetto di suggestio­ne della banda locale – per di più quasi non esistono i corsi per batteria e percussioni. E' naturale che nelle scuole libere i cor­si per strumenti da banda e jazz (sax, clarinetti, tromboni, batteria) si pren­dano la rivincita.

Amedeo Tommasi ai tempi del trio (anni 60) E poi, che cosa dà lo Stato a questi giovani? Di fronte a tanta "domanda" musicale, l'offerta in tutto il Lazio è rappresentata da due so­li Conservatori, a Ro­ma e a Frosinone, con poche aule, insegnanti e pro­grammi vecchio stile, anacronistici esami d'ammissio­ne, paternalismo, cri­teri elitari. « Lo sco­po è di creare tanti piccoli Rubinstein », dice il pianista Amedeo Tommasi, che insegna teoria alla scuo­la St. Louis di Roma, « ma solo 1'1 o il 2 per cento raggiunge la meta; gli altri formano una palude di cattivi "letto­ri", incapaci perfino di suonare una canzonetta. Invece, bisogna liberarsi della schiavitù della lettura e fare mu­sica in modo autonomo. Altro che musicista-esecutore, passivo e schiavo del­lo strumento. Noi insegnamo a diven­tare musicisti-autori, ad esprimere in musica in modo immediato ciò che si sente, piegando lo strumento se necessario, non lasciandosi piegare ». In­somma, una concezione anglosassone del "far musica", o una sorta di poe­tica dello "Sturm und Drang" appli­cata al jazz?

Questa "rivincita" però spiega il fe­nomeno delle 9 scuole sorte a Roma, delle 5 a Milano e così via, regione per regione. Al Testaccio si sono pre­sentate nei giorni scorsi 800 persone, ma solo 300 hanno potuto essere ac­colte: gli altri, sono in "lista d'attesa". Folla analoga alla Nuova Milano Mu­sica e all'Istituto del jazz di Parma. Il corso di Giorgio Gaslini al Conser­vatorio di Milano ha avuto lo scorso anno ben 600 allievi. Ovunque una ressa incredibile, bambini trascinati dalle mamme (poi però ritirati per colpa, sembra, delle "troppe parolac­ce" e dell'ambiente "di sinistra"), caos, gomitate. Talvolta le quote sono anche di 25 mila lire al mese. Sorgono scuo­le non solo in centro, ma anche in borgata o nei paesi, come la Alessan­drina a Roma e quella di Mentana. Senza contare i corsi di musica pres­so enti e club culturali.

E' un « processo di musicalizzazio­ne » irreversibile della nostra cultura, dice Amedeo Tommasi. Il boom dell' ascolto musicale di questi anni ha il suo peso, c'è la diffusione dell'hi-fi, del disco, la musica trasmessa dalle radio e televisioni pubbliche e private, i concerti e i festival in piazza. « Per­fino lo sceneggiato televisivo "jazz Band", di Pupi Avati », sostiene Lui­gi Toth, coordinatore della scuola Roma jazz, « ci ha portato gente ». Sentono sui dischi o alla radio Charlie Parker o Vivaldi: è naturale che vo­gliano rifarli. La musica, così, ritorna sempre più al suo ruolo di linguaggio primordiale ed elementare, universale perché di immediata intuizione.

Molti allievi vengono dal Conserva­torio. «Magari hanno fatto otto anni e più di pianoforte, sanno leggere ed ese­guire la musica (di altri) al piano. Ma non sanno suonare il piano », lamen­ta Tommasi. Mentre il paradosso è che non tutti gli insegnanti sono diplo­mati. Alcuni sono dei bravi jazzisti e basta.

E i programmi, i metodi di studio seguiti, sono proprio diversi da quelli di Stato? A sentire gli insegnanti sem­brerebbe di sì. Gaslini segue da anni il metodo storico-comparativo, con frequenti accostamenti tra forme jazzi­stiche e no, analizzandone l'evoluzio­ne storico-stilistica, dai canti di lavoro al free-jazz. Per i più bravi ci sono i seminari interdisciplinari. « A Testac­cio si preferisce battere molto sulla pratica d'insieme, mettere subito gli allievi a suonare tra loro, per svilup­pare nel confronto la confidenza con la dimensione viva e collettiva della musica », mi spiega Celestino Dionisi. E questa sembra la novità più appari­scente della metodologia delle scuole libere. Ai "laboratori liberi" – ci so­no lavoratori "A" (per evoluti) e "B" (per principianti) – possono parteci­pare anche i non iscritti, purché sap­piano tenere in mano uno strumento.

Al St. Louis – forse l'unico caso tra le scuole libere – c'è perfino un corso di composizione, accanto al sol­feggio e all'armonia. « il nostro è un metodo elastico », spiega Tommasi. «Professionistico per l'1 o 2 per cento degli allievi che sceglie la strada pro­fessionale, dilettantistico per gli altri. Una lezione di pianoforte dura anche quattro ore. Chiunque entra ed esce quando gli pare. I principianti vengo­no all'inizio e se ne vanno quando cominciano a non seguire più; gli evo­luti vengono più tardi. Ma in genere preferisco lasciare un allievo bravo per seguire gli altri: dopotutto il no­stro scopo è quello di elevare il livello medio musicale, più che sfornare musicisti di grido. Certo, diamo molta im­portanza alle basi teoriche. Non è ve­ro che queste non servano per fare "free-jazz" o musica improvvisata. Ser­vono, eccome. Si sente che un Archie Shepp, o anche un Massimo Urbani, conoscono la cultura jazzistica, le tradizioni ».

Prima regola perciò è "semplificare le regole". «Mentre i "greci" [gli in­segnanti del Conservatorio romano di via dei Greci, NdR] ci mettono tre an­ni per far entrare in "testa i primi rudimenti, noi ci impieghiamo tre set­timane ». Quasi ovunque, in effetti, si inizia subito col solfeggio cantato: in due mesi l'allievo sa solfeggiare dal do fino al mi, in quattro completa la scala.

Ma non basta. « Loro usano tutte e sette le chiavi per la lettura, noi fac­ciamo leggere solo nelle due chiavi più importanti: violino e basso », dice Tommasi. « I "greci" continuano a usare termini paradossali, come "semi­minima", "semibiscroma", "chiave di tenore" ecc. Non è giusto con l'attua­le fame di musica far abuso delle difficoltà ». Ma neanche esser troppo di manica larga: «Ventiquattro dei venti­cinque allievi del mio corso di piano », aggiunge Tommasi, « si sono dichiarati per un corso "duro". Peccato che sia­no un po' pigri. Se solo studiassero un po' a casa...».

Dalle scuole libere, però, non stanno venendo fuori i solisti e i gruppi che ci si attendeva. Dopo il trionfalismo iniziale si è ora più cauti e realisti sui risultati professionali del "boom". Per un Paolo Damiani, buon contrab­bassista uscito da Testaccio, e soste­gno del gruppo d'avanguardia "Strut­ture di supporto", decine di allievi si sono accontentati dell'hobby del saba­to sera, altri hanno abbandonato. «Al­meno la metà, 150 allievi, interrompo­no gli studi», sostiene Toni De Fi­chy del St. Louis. « L'esodo è più forte nei primi quattro mesi: circa il 35 per cento degli iscritti non si fa più vedere ». Stesse percentuali nelle altre scuole.

Il perché di queste ritirate indecoro­se si conosce bene. Viene fatto risa­lire all'estrema superficialità con cui molti ragazzi rispondono agli stimoli della "musicalizzazione" forzata. Basta un lungo assolo di Braxton a Um­bria-jazz o – che so – un clarinetto dalla sonorità "dirty" di un imitatore di Johnny Dodds, per accenderli. Su­bito corrono ad iscriversi, magari in gruppo. Si accorgeranno poi, e sarà un dramma, che per imparare la musica è indispensabile fare molta pratica a casa, anche per ore. Questo li terroriz­za. Altri, suggestionati da un certo modo "televisivo" di far musica e dalla diteggiatura del pianista-divo di musi­ca colta, vorrebbero portare anche sul­la tastiera jazz quella leggerezza, quel modo "arpeggiato" di suonare gli accordi. « Le ragazze specialmente », no­ta Nino De Rose – insegnante di pia­no jazz a Testaccio – « non hanno un tocco jazzistico, non accentano forte, e finiscono per credere che il jazz sia una musica maschilista... ». Così pas­sano al piano classico.

Le donne sono numerosissime. Per 1a prima volta in Italia hanno comin­ciato a circolare, anche nei jazz-club, ragazze con pesanti custodie di sax e di contrabbassi, portate con disinvoltura, come fossero "beauty-case". So­no tanto numerose che potrebbero organizzare vari complessi di tutte don­ne, se solo trovassero delle compagne batteriste, piuttosto rare. Insomma, uno spaccato sociale completo, dove non mancano neanche gli studenti-ope­rai (uno su dieci, sostengono al St. Louis) e gli studenti-impiegati, (due su dieci), di solito statali quarantenni, tut­ti casa e lavoro, ma zelanti.

Nate con l'illuministico proposito di divulgare la cultura musicale, sosti­tuendosi all'inerzia dello Stato, ora però le accademie private vedono proprio nello Stato il proprio avversario. Al­cune, quelle più politicizzate, che spes­so si trovano in locali occupati abusivamente, possono essere buttate fuori da un momento all'altro dalla polizia o dall'ufficiale giudiziario. Altre la­mentano la mancata elargizione di fi­nanziamenti da parte delle amministrazioni locali. Tutte, infine, temono che la progettata riforma scolastica, affi­dando l'educazione musicale di massa alle scuole, finisca con lo svuotare le ragioni stesse della propria esistenza. Eppure, dicono tutti i coordinatori, un compito sociale, anzi un servizio pubblico, lo stiamo svolgendo.

Per ora, intanto, le scuole funziona­no anche come luoghi di ritrovo e di appuntamento per i più giovani, un'utilizzazione cui i mitici fondatori non avevano pensato. Con le case sempre troppo piccole, con uno spazio sempre più ristretto a disposizione, molti ra­gazzi preferiscono incontrarsi "a scuo­la". Un modo simpatico e intelligente, come dice con ironia Tommasi, di ritro­varsi, di conoscersi, perfino di rimor­chiare le ragazze. « Dopotutto la musica è una grande mezzana ».
NICO VALERIO

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ST. LOUIS E' UNA FRAZIONE DEL TESTACCIO?

Scheda informativa sulle principali scuole libere di musica e di jazz

SCUOLA POPOLARE DI MUSICA DEL TESTACCIO, via Galvani 20, Roma. Corsi di jazz, musica colta, folk, musica da ballo. 37 corsi (21 teorici e 17 strumentali). Tra gli insegnanti Bruno Tommaso, Giancarlo Schiaffini, Martin Joseph, Michele Iannaccone, Nino De Rose. Molti lavoratori liberi. 300 soci, più 200 iscritti ai laboratori, un po' sacrificati per mancanza di spazio. Lezioni: in media da uno a tre allievi per lezione. Quote: L. 20.000 di iscri­zione all'anno, più L. 10.000 mensili di frequenza. Impegno scolastico: lezione singola, due ore di laboratorio, due ore di teoria, due ore di solfeggio. Cooperativa di insegnanti e allievi con commissioni miste didattica e amministrativa. Da quest'anno anche un Corso per operatori musicali.

CENTRO JAZZ ST. LOUIS, via del Cardello 130, Roma. 06/483.424. Tutti i corsi teorici e strumentali del jazz, violino compreso. Tra i docenti Amedeo Tommasi, Massimo Urbani, Al Corvini, Roberto Gatto. 250 iscritti. Molto spazio a disposizione. Lezioni collettive più che individuali. Quote: L. 10.000 di iscrizione a ciascuno dei due quadrimestri, più 20 mila mensili. Gratis servizio fotocopie e spartiti. Impegno settimanale: almeno 15 ore, più 12 ore libere per i gruppi spontanei.

ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL JAZZ, via Borgo Felino 31, Parma. 0521/347.53. Direttore Lorenzo Cuneo. Corsi teorici e pratici per ogni stru­mento, improvvisazíone, orchestra ecc. Ha fama di essere la migliore scuola italiana. Lezioni e impegno scolastico: minimo di 12 ore settimanali. 300 al­lievi. Quote: L. 15.000 mensili. Nel corpo insegnante figurano i più sperimentati solisti italiani, da Gianni Basso a Franco D'Andrea. A fine corso un concerto-saggio si tiene nella sala Giacomo Ulivi di Parma.

CENTRO STUDI MUSICALI "BRASS GROUP", viale Villa Heleoise 21, Palermo. 091/267.947. Tutti i corsi teorici e strumentali del jazz. Direttore: Ignazio Garsia, 091/522.202 e 254.422. Tra gli insegnanti vari musicisti jazz, tra cui il vibrafonista Enzo Randisi.

CENTRO MUSICA HANS EISLER, Milano. 02/656.160. Coordina il la­voro didattico di cinque scuole musicali, di cui quattro gestite dall'Arci e una, quella della Scuola Umanitaria, dalla Cooperativa l'Orchestra. Il programma di quest'ultima, contrariamente alla prassi in voga in gran parte delle altre scuole, che basano la loro attività didattica principalmente sulla pratica stru­mentale, consiste in un corso di composizione in cui lo studio dello strumento è considerato come un semplice passaggio verso l'appropriazione dei vari linguaggi musicali, a fini compositivi. I corsi (bisettimanali) tenuti dai musicisti dell"'Orchestra" comprendono: pianoforte, contrabbasso, chitarra, saxofoni, trombone, violino e flauto dolce.

NUOVA MILANO MUSICA, piazza Repubblica 6, Milano. 02/655.555. E' più una scuola privata che una scuola "popolare" di musica. Prevede tutti i corsi di teoria e strumentali del jazz. E' considerata la più seria scuola mila­nese. Tra gli insegnanti si contano molti celebri jazzisti, da Sergio Fanni a Sante Palumbo.

CENTRO DJANGO REINHARDT, villa Pantelleria, Palermo. 091/588.097. Una villa del '700, fatiscente, restituita all'antico splendore 2 anni fa dall'iniziati­va volontaristica degli studenti guidati dal jazzista Claudio Lo Cascio che ne è l'attuale direttore. Attualmente ospita circa 180 allievi. I corsi sono: teoria musicale (obbligatoria per tutti gli strumenti) e poi chitarra, pianoforte, flauto dolce, nonché un piccolo laboratorio di musica elettronica. La scuola popolare di jazz e i seminari d'improvvisazione costituiscono un corso a parte di "per­fezionamento stilistico" per musicisti che abbiano già una buona pratica stru­mentale. La tessera di socio costa 1.000 lire al mese e dà diritto a frequentare tutti i corsi e le attività collaterali del centro (concerti, gruppi di ascolto, semi­nari ecc.). E' l'esperienza più qualificante del Sud.
N.V.

IMMAGINI. 1. Corso di clarinetto. 2. La big band diretta da Vittorini. 3. Una lezione nei primi tempi della scuola del Testaccio (1975). 4. Il pianista Amedeo Tommasi, insegnante alla scuola di jazz di Saint Louis, nella copertina d’un disco ai tempi del suo trio nei primi anni Sessanta.

AGGIORNATO IL 23 GENNAIO 2015

1 Comments:

Anonymous Luigi Toth said...

Vorrei ricordare che io sono stato l'ideatore e socio fondatore e ancora oggi non riesco a perdonarmi di avere preso due soci sbagliati e così ho perso l'iniziativa e cinque milioni che si sono guardati bene dal restituirmi. E così mi sono messo alla ricerca di un altro locale e ho aperto il Mississippi jazz club dove hanno suonato centinaia e centinaia di musicisti italiani e americani. Quando poi abbiamo subito lo sfratto sono stato ideatore e cofondatore dell' Alpheus. Poi me ne sono andato in America, saluti. LUIGI TOTH

9 marzo 2022 alle ore 22:47  

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