07 marzo 2015

COLORE. Eccita gioia di vivere, parla di natura e libertà. Perciò spesso è vietato.

Holi festival dei colori IndiaHoli è in India, all’inizio di marzo, la festa del colore, dell'eccesso di colori, dell’eccitazione generale, della gioia di vivere e della libertà manifestata in modo eccessivo nel più appariscente e infantile dei modi: cospargere se stessi di oggetti e abiti colorati, e i vicini di polveri colorate, azzurre, gialle, rosse, verdi, violette. Un’orgia cromatica che come tutte le orge vive e prospera solo nell’eccesso. E i pigmenti colorati si vendono in caratteristici mucchietti in ogni mercato indiano. Servono per un’infinità di impieghi, anche per comporre i tradizionali rangoli, decorazioni coloratissime simmetriche o no, spesso strabilianti, tipiche del giorno della festa di Diwali. Perché tutto questo uso del colore? Noi occidentali ne siamo meravigliati.

Perché il popolo, e non solo in India, capisce da sé, senza tanti psicologi tromboni, che il colore è eccitazione, e serve a stimolare ma anche ad esprimere gioia, voglia di vivere, e appunto per questo, talvolta è un’infrazione della norma. Ne sanno qualcosa i bambini, grandi appassionati dei colori e insieme grandi disubbidienti. Perché le norme, si sa, sono costrittive, anti-cromatiche, grigie, devono attenuare non eccitare gli istinti. Il poliziotto, il prete, il magistrato, il politico, sono grigi o neri (il nero era ed è il non-colore della morte, cioè della serietà), mentre il bambino, il disubbidiente, il rivoltoso, il matto, l’artista – che a ben vedere sono sempre il medesimo personaggio – sono colorati.

Pigmenti colorati al mercato in India

Alla fine dell'inverno (per antonomasia grigio), l'inizio della primavera, che si preannuncia con i suoi fiori e i suoi colori, è celebrato in India come una rinascita, anzi una rivalsa contro le passate privazioni. Il tutto è simbolico, ovviamente, perché in India i colori sono sempre presenti tutto l’anno. Anche le religioni locali lo favoriscono, dall’induismo agli Hare Krsna, sotto il millenario insegnamento della sapienza dell’Ayurveda, che è stata anche diffusione di colori e sapori, tutti ritenuti significativi o terapeutici.

Ma è chiara la discendenza da riti antichissimi, atavici, da tradizioni pagane certamente comuni a tutte le culture. Colorata era anche la nostra grandissima civiltà Etrusco-Romana: tanto che non solo i vestiti di donne e uomini, gli stipiti e gli infissi, i muri e gli oggetti erano tinti, ma anche le statue di marmo erano dipinte a colori vivaci: tunica, membra, capelli, occhi. Nonostante che in antico le sostanze coloranti costassero molto, per non parlare della porpora, più cara dell’oro. Anzi, questo rendeva il colore ancora più desiderabile in quei tempi beati, perché il grigio, il grezzo, il biancastro, il non-colore, dovevano essere il marchio distintivo dei poveri o degli uomini comuni, mentre il colore era il simbolo dei ricchi e potenti (cfr. la toga praetexta dei senatori romani, importata dagli Etruschi, bordata di rosso, in confronto alla semplice toga virilis senza colore).

Folla colorata India 

Un parallelo curioso, ad ogni modo, può essere tentato tra la festa della Luce alla fine di dicembre (solstizio d’inverno) e la festa del colore all’inizio della primavera (primi giorni di marzo), accomunate dal cambiamento verso la luce o una diversa qualità di luminosità. Dal buio dell’autunno-inverno, che equivale al non-colore, verso la luce. Lichtbund, associazione della luce, chiamavano i loro primi club naturisti dell’inizio del Novecento in Germania gli adoratori moderni del sole e della Natura.

In entrambi i casi, un cambiamento. E così tradizionale e mitizzato nei secoli da diventare un rito religioso, pagano. E più il mutamento di stagione ritualizzato era brusco e totale, più assumeva i connotati della festa popolare orgiastica con danze, canti, offerte, lanci di fiori, giochi, rituali complicati, misteri. Come un tempo in Occidente i Saturnali, che accanto ai riti per gli Dei e i loro sacerdoti prevedevano eccezioni d’ogni tipo, incredibili oggi, nel rispetto delle norme sociali, e così si trasformavano in realtà in un’isola temporale di licenza e sfrenatezza in cui tutto o quasi era consentito, non solo il divertimento, ma anche la più eversiva infrazione della norma e dell’ordine costituito. E così, p.es., in alcune case i servi comandavano o potevano fare quello che volevano, le donne e i giovani potevano bere vino, ecc.

Rangoli colorato nella festa del Diwali in India copiaQuesto ben di Dio di cultura antropologica, questo immenso sfogo psicologico e sociale, fu brutalmente censurato dalla Chiesa. Che però non riuscì a vincere del tutto e fu più debole delle Tradizioni popolari. Non riuscendo a vietarlo, i Cristiani furbescamente separarono il momento rituale (trasformandolo in religioso: di qui l’invenzione del Natale al 25 dicembre, guarda caso) da quello gioioso e alternativo. Così spostarono il momento ludico e gioioso molto più in là, lontano dalla festa della Luce dicembrina, inventando la festività laica del Carnevale, che come dice il nome cancellava per alcune settimane l’opprimente e complicata cappa di digiuni e astinenze che costellava l’intero anno cristiano. Era preferibile una volta all’anno lo sfogo dei bollori popolari – avevano intuito gli psicologi cristiani – alla oppressione totale. E nel Carnevale, infatti, esplode il colore. Si gettano coriandoli colorati, ci si dipinge la faccia, le maschere sono tutte coloratissime, anzi l’unica non colorata (Pulcinella) è quella di un popolano sconfitto dalla vita. Ma anche qui la discriminazione del colore sopravviveva: ai poveri spesso non restava che gettare più economica polvere bianca o in mancanza addirittura oggetti contundenti sulla folla, segno di un’aggressività troppo a lungo trattenuta: ne parlano le cronache dei Carnevali romani fino alla fine dell’Ottocento.

Ad ogni modo, il colore cominciò a sparire dalla vita quotidiana degli uomini col prevalere delle religioni monoteiste occidentali. La tristezza del presunto Dio unico, lontano, inavvicinabile, addirittura non riproducibile, quindi a maggior ragione senza colore, i cui sacerdoti consideravano superstizioni tutti i riti colorati del popolo, cancellava le coloratissime storie degli Dei, i loro templi colorati, i loro riti colorati.  E’ così che la Religione monoteista in Occidente come in Oriente, ha anche distrutto gran parte della gioia di vivere degli Umani.

La Chiesa Cristiana e ancora di più l’Islam, sono stati i maggiori nemici del colore e della gioia di vivere che vi è connessa, veri e propri diffusori di tristezza, di lutto, di "non-colore", di morte, di dolore. Religioni pessimistiche e sado-masochistiche che hanno voluto trasformare tutti gli uomini in esseri deboli, vinti, perdenti, e soprattutto peccatori (per loro ammissione testuale), quindi grigi, anonimi, senza colore. Con la differenza che il Cristianesimo perdona, anzi alla fine perdona troppo e tutti, ingiustamente equiparando i buoni ai cattivi, mentre l’Islam è abilitato solo a condannare senza pietà, ancora più ingiustamente, equiparando mancanze lievi ai delitti gravi.

Una sfumatura di “moderatismo” o meglio di eredità dall’antico paganesimo colorato, ma che continua a iscriversi nel concetto di colore come Potere, che si rivela anche nel recupero residuo del colore da parte della Chiesa – ma solo per se stessa, come privilegia interna corporis – quando si tratta di vescovi, cardinali e papi. Infatti, come sono narcisi e attenti a cambiare dal rosso al violetto, dal bianco al viola e al giallo i colori dei paramenti sacri dell’altare o a seconda del giorno liturgico e della carica! Ma il popolo, le donne soprattutto, più erano-sono grigi, neri o bianchi (assenza del colore) meglio era-è per loro. Le donne erano costrette al velo nero, alla cuffia nera, fino all'altro ieri. L’Islam tuttora vieta alle donne di usare colori vistosi, condannandole a veli grigi o neri. Divieto di colore che si somma e quasi si “giustifica” con tutti gli altri divieti islamici sull’abbigliamento, in particolare delle donne.

Ma anche in Occidente a causa di questo tabù cromatico religioso ormai diffuso dappertutto, specialmente nel Sud Europa, l’esplosione dei colori nel popolo era-è considerata sfacciata, sensuale, poco seria, ridicola, provocatoria, lussuriosa, ambigua, folle, irriverente e irritante, eversiva, trasgressiva ecc., se non relegata a periodi eccezionali o in occasioni speciali in cui è ammessa la licenza (non solo a Carnevale, ma anche nei costumi locali caratteristici, nei quali però il carattere libero ed eversivo del colore in sé è temperato e annullato dal valore conservatore dell’abito che conferma il ruolo sottomesso della donna, sia pure sfacciatamente colorata. Poco hanno inciso sul vasto pubblico in Occidente alcuni spiriti liberi che hanno scritto di “teorie dei colori” o di cromoterapia (terapia del colore), oggi arrivata, molto diluita e banalizzata, ma sempre in teoria, perfino alla portata degli arredatori e architetti. Che, ciò nonostante, continuano caparbiamente a dipingere le case e le stanze di neutri non-colori. Così come Goethe, l’unico a tentare già nell’Ottocento un’analisi “scientifica” dei colori, poi vestiva quasi sempre di nero, di grigio o di bruno. Ancor oggi si può entrare in Parlamento, al limite, in jeans e maglietta (se coperta da una giacca), ma non in giacca-e-cravatta se il doppiopetto, mettiamo, è di color rosso o giallo. Ammesso che si sia riusciti a convincere un sarto.

Non solo, ma le mode di ieri, etero-imposte, trovano giustificazioni tra i giovani oggi, come mode auto-imposte. Così è curioso, paradossale, forse anche vergognoso se si pensa da dove proviene e che cosa significa realmente quel gusto per il “nero”, osservare ancor oggi in certi paesini in Abruzzo, Basilicata, Calabria o Sicilia le ragazze più giovani in “black” totale, proprio dove le donne più anziane e tradizionali indossano ancora abiti neri e un velo nero sulla testa, Dark ladies e dark girls unite nella sottomissione e nel masochismo dei sensi. Una continuità imbarazzante.

Censura sensuale che, del resto, continua e si conferma anche nei “colori” veri del cibo, che sono i sapori forti, le spezie, da sempre compresse e quasi vietate da tradizioni contadine sicuramente veicolate dal clero, senza neanche la scusa dell’alto costo dopo l’introduzione del peperoncino. Anche qui il paradosso atroce: il Paese più ricco di erbe aromatiche, l’Italia, grazie al suo terreno e al suo clima, che meno ne fa uso, una riluttanza tenace presso i contadini e le persone semplici e ignoranti o paesane che ha dell’incredibile, e che deve anch’essa risalire – tutto torna – a quella sorta di “castità” dei sensi insinuata, se non apertamente imposta, dai preti. E infatti il caffè fu fortemente sconsigliato dai parroci alle massaie delle comunità rurali – l’analogia regge, eccome – e il sostituto popolare-contadino del “caffè d’orzo” o di cicoria promosso proprio dai preti. Per il popolo, ovviamente. Nulla che possa “eccitare” doveva e deve essere consentito.

Un giorno chiederemo conto al Cristianesimo, soprattutto Cattolico, e all’Islam anche di questo piccolo-grande crimine ai danni della felicità dell’Uomo: la censura del colore, il primo degli eccitanti psicotropi naturali della vista e della vita dell’uomo.

IMMAGINI. 1. Ragazze indiane colorate nel giorno della festa di Holi. 2. Pigmenti colorati venduti in ogni mercato in India. 3. Folla coloratissima ad uno spettacolo in India. 4. Donne che preparano un rangoli tradizionale, utilizzando varie polveri colorate, nel giorno della festa di Diwali.