12 aprile 2010

CORPO. Parla, eccome, e non solo a gesti. Ecco come capirne il linguaggio.

Studio antropometrico
STRANEZZE E CURIOSITA’ EVOLUTIVE DELL’UOMO
IL LINGUAGGIO
DEL CORPO NUDO
Visti senza il velo dell'assuefazione, anzi senza alcun velo, il corpo umano e i suoi atteggiamenti riservano incredibili sorprese, perché rivelano una quantità di caratteristiche e di significati che di solito sfuggono alla coscienza.
di NICO VALERIO, Scienza 2000, dicembre 1986

Astronomia; occultismo, cripto-­zoologia, futurologia... E inuti­le andare così lontano per tro­vare la «scienza delle meravi­glie». L'oggetto più strano e di gran lunga meno conosciuto è quello più vicino a noi: il nostro corpo. E non c'è bisogno; si badi bene, di studiare l'intero organismo, ma solo la su­perficie esterna del corpo. Abituati come siamo a usare gli organi esterni del nostro corpo o a guardare allo specchio le nostre gambe, le nostre orecchie, le nostre labbra, i nostri capelli, finiamo per non cogliere le incredibili curiosità anatomiche, evolutive e linguistiche del più originale degli animali esistenti sulla Terra. Per l'uomo, osservato­re per eccellenza, non è facile ottenere il necessario distacco scientifico dall'oggetto studiato, quando si tratta di osservare la funzionalità d'un organo che si usa centinaia di volte al giorno, o il significato d'un gesto abituale.

Ma se riusciamo a togliere il velo dell’as­suefazione, tutto un mondo incredibile e nuovo si offre al nostro sguardo, come se invece del nostro corpo si trattasse di quello d'uno strano organismo «alieno». Il segreto è farci letteralmente a pezzi, tagliarci e sud­dividerci in zone, organi e arti, da confron­tare e osservare separatamente, come si fa di solito con continenti, isole e promontori terrestri.

Cerchiamo di guardare con occhi nuovi, scientificamente ingenui, le varie zo­ne del nostro corpo, fingendo di essere degli scienziati di Marte catapultati per caso a Roma o a New York. E che vediamo? Ca­pelli, occhi, seni, gambe, barbe, spalle, nati­che, piedi; nasi, orecchie, mani, anche, ge­nitali, ventri, bocche, dorsi, fronti, colli, braccia e guance, che non abbiamo mai visto prima. Scopriamo così verità scientifiche in qualche modo ancora «scandalose», perché urtano contro sedimenti e residui tradizio­nali e ascientifici presenti nella nostra «cul­tura del corpo», specie per colpa delle con­vinzioni moralistiche e religiose.

Innanzitutto, impariamo a identificare l'animale uomo. La prima caratteristica che si nota è anche la più strana: una grande e rigogliosa massa di capelli. Un corpo nudo, molle, indifeso, privo di aculei, artigli, fau­ci, scaglie, ma sormontato da un'enorme e buffa massa pelosa sopra la testa e lungo i fianchi: ecco il nostro identikit specifico. L'impressione. e la curiosità degli altri ani­mali deve essere stata enorme al nostro apparire.

I peli della testa, se non sono periodicamente tagliati, crescano per sei anni circa. Poi entrano in fase di quiescenza per vari mesi (il 10% circa, in ogni momen­to) e infine cadono e sono sostituiti da altri capelli attivi. In alcuni casi la quiescenza non funziona e si possono avere anche capi­gliatura di due-otto metri di lunghezza. Questo sia per i maschi che per le femmine: non esiste differenza biologica al riguardo. La capigliatura folta e lunga è il distintivo del genere umano, non solo delle femmine del­l'uomo. I biondi, però; l'hanno più folta (circa 140 mila capelli, contro i 108 mila dei bruni e i 90 mila dei rossi), al contrario di quanto si ritiene comunemente. La resisten­za alla trazione dei capelli è notevole. Nella razza mongoloide ogni pelo può reggere 160 g, il che vuol dire che l'intera capigliatura può teoricamente sostenere una trazione di 16 tonnellate. Può anche allungarsi del 20 o 30 per cento senza strapparsi.

Per non per­dere i capelli, il maschio dovrebbe farsi castrare prima della pubertà, visto che è proprio la maturità sessuale a far circolare gli ormoni che provocano la calvizie. Ecco perché la calvizie finisce per denotare il maschio anziano più dotato sessualmente.

Perfettamente uguali a quelli del ma­schio, i capelli della donna occidentale sono portati in genere più lunghi per colpa di San Paolo, che ordinò alle donne il capello lun­go, mentre per gli uomini prese a modello i capelli corti maschili prescritti ai soldati romani per motivi igienici e per distinguerli in battaglia dalle lunghe chiome dei barbari.

Per tanti millenni, invece; i capelli lunghi hanno denotato forza fisica e potere (mito di Gilgamesh, Sansone, ecc). I re e i condottie­ri, i saggi e gli asceti portavano capelli lun­ghi. «Cesare» (kaiser e zar) sembra che significhi «uomo dai capelli lunghi. Del resto è il maschio a diventare più peloso della femmina alla pubertà. Raparlo è quindi sempre un'umiliazione, per Freud addirittura una forma di castrazione.

Ecco perché schiavi e monaci erano costretti a raparsi, e ancor oggi gli Stati autoritari e gli uomini reazionari impongono a sudditi e figli una capigliatura cortissima.

Il puritane­simo, combattuto tra la regola di San Paolo e il carattere di invito sessuale del capello lungo femminile, impose alle donne una via di mezzo: capelli lunghi, sì, ma arrotolati e raccolti dietro la nuca. Ecco perché i capelli lunghi e sciolti d'una donna acquistano an­cor più i caratteri d'una profferta amorosa e denotano intimità o disponibilità sessuale. Rapare una donna è quindi privarla del simbolo della sua sessualità. Lo si faceva con le prostitute e, ancora nel 1945, con le donne europee che avevano fraternizzato con i nazisti occupanti.

La flessibilità della capigliatura è tale che ad una ideologia, ad una presa di posizione esistenziale o ad una condizione psico-socia­le corrisponderebbe una acconciatura diversa. Il cantante Boy George (femminilità), le creste e gli aculei ottenuti con collanti dai punk (aggressività), la «maschietta» di George Sand e di molte femministe della prima ora (mascolinità), sono altrettanti aspetti di intenzioni oltraggiose affidate dal­l'uomo ai propri capelli.

Un'infrazione della norma denota anche il cranio totalmente rasato per libera scelta dell'uomo urbano contemporaneo. Qui l'ambiguità semantica è notevole, tra presumibile calvizie (vec­chiaia), mezzo escogitato da lottatori e guer­rieri per non offrire una presa all'avversario (coraggio, mascolinità), espediente da nuo­tatori professionali per diminuire l'attrito in acqua (atletismo, vigoria) e richiamo paren­tale del capo nudo di un lattante, da baciare e massaggiare (richiesta affettiva alla don­na-madre).

E anche la gestualità legata ai capelli ha profondi e inequivocabili signifi­cati, come il classico gesto di disperazione o di ansia che consiste nel portare le mani alla testa. L'azione di grattarsi la nuca, invece, è un gesto stilizzato di copertura psicologica. Nasconde è razionalizza il gesto aggressivo primario dell'uomo, affidato al colpo del braccio dall'alto in basso, modificato all'ul­timo momento nell'apparentemente inno­cuo gusto del grattarsi. Sollevare ad arieggiare i capelli con, le mani è invece nelle donne un atto stilizzato di attenzione sessua­le verso il maschio presente, come per dire: «voglio farmi bella per te».

L'abbassamento delle sopracciglia (ag­grottamento), accompagnato o no dallo strizzare gli occhi, esprime si esigenze di aggressività (disapprovazione, irritazione, ecc.) ma soprattutto di protezione degli occhi da un pericolo potenziale o di sovrae­sposizione (disgusto, riso, pianto, ecc.). Ambigua o anfotera l'espressione scettica di un solo sopracciglio alzato, così difficile per alcuni: da una parte l'individuo mostra uno stato d'animo forte (sopracciglio basso), dall'altra un moto di sorpresa (sopracciglio alto). Gli umoristi, gli attori, i mimi, sanno usare alla perfezione questo potente mezzo espressivo, che però non tutti riescono ad interpretare.

Più ampi ancora sono lo spettro espressi­vo e la funzionalità recondita degli occhi. Già il frequente gesto della mano sulle palpebre o sulle sopracciglia, o il messaggio dei globi oculari, nasconde depressione e sco­raggiamento, un modo per interrompere per quanto passibile i contatti col mondo. La sclera bianca, poi, permette all'uomo di cogliere subito, pure a distanza, l'angolo dello sguardo di un'altra persona.

Anche la forma esteriore è significativa. Noi tutti nel grembo materno abbiamo occhi a mandor­la, per una protettiva «plica mongolica» che da adulti conservano solo gli orientali e gli eschimesi, forse come ulteriore protezione contro il vento e il freddo. Lo sguardo è di gran lunga l'atto conoscitivo più importante dell'uomo. Guardare gli occhi del nostro vicino non significa solo osservarne il colore apparente dell'iride (che sembra azzurro o nocciola-verde o nero a seconda che contenga rispettivamente pochissima, poca o molta melanina), ma anche scrutarne la psicologia e le intenzioni.

In gruppo il subordinato tende a rivolge­re lo sguardo alla figura dominante, mentre quest'ultima tende a non guardare il subor­dinato se non per una domanda o un ordine diretto. In quest'ultimo caso il subordinato non riesce a reggere lo sguardo del capo e guarda altrove. Uno sguardo fisso per più di uno-due secondi su una persona, equivale ed è interpretato come aggressivo e minac­cioso, cosicché ci si affretta – e non per timidezza – a distoglierlo rapidamente e a posarlo su altri oggetti. Solo in caso di amo­re o odio intensi, lo sguardo diretto dura a lungo.

Mentre si guardano senza timore, gli innamorati controllano reciprocamente, senza avvedersene, il grado di dilatazione della pupilla: se è larga vuol dire che nell'al­tro c'è amore e fiducia, se è piccolissima vuol dire che esistono problemi. Nell'amici­zia, nel dialogo paritario tra persone di uguale rango e nell'amore moderato, inve­ce, gli sguardi sono alternati: nessuno dei due vuol intimorire l'altro con uno sguardo diretto e lungo. L'amicizia si mostra infatti escludendo qualsiasi aggressività, anche nello sguardo. Quando un amico parla lo guardiamo; quando parliamo e un amico ci guarda distogliamo lo sguardo osservando­lo solo di sfuggita e per poco, soltanto per controllarne le reazioni.

Si capisce perciò che lo sguardo fisso di un «occhio rinforzato» simboleggiato dagli oc­chiali può metterci a disagio come un elemento minaccioso di intromissione. Allo stesso modo, ma più lievemente, appare il gesto degli occhiali e del binocolo fatto con le dita, reso famoso da personalità come papa Woytjla, Salvator Dalì e Bob Dylan. Le montature massicce sono quindi più ag­gressive di quelle leggere, per l'aria peren­nemente accigliata e il tono inquisitorio che conferiscono, simile in un certo senso al sopracciglio unico e folto unito al gesto di un dito puntato contro l'interlocutore. Chi sce­glie occhialini leggerissimi cerca quindi di proclamare la propria non-aggressività; mentre le lenti scure o a specchio usate quando non c'è sole denotano una qualche forma di inganno o di insicurezza.

Per quanto oggi in declino e non più di moda, un grosso naso maschile incute sog­gezione e denota un aspetto virile, proprio come se fosse una appendice fallica. Del resto, il naso maschile imita l'eccitazione sessuale del pene ingrossandosi e riscaldan­dosi (tra 1,9°C e 3,4°C in più) durante l'atto sessuale. Una differenziazione sessuale evolutiva ha limitato il volume del naso femminile, che perciò acquista bellezza tanto più è piccolo e meno gibboso.

Il naso si dilata per la rabbia o l'emozione, viene storto in segno di diffidenza, si rag­grinzisce in segno di avversione, viene spes­so toccato con le mani quando diciamo una bugia, stretto o lisciato fra le dita quando riflettiamo, frugato nelle sue cavità con le dita per noia o frustrazione (per es, da un automobilista nel traffico congestionato, o da uno spettatore).

Ancora di più, le guance tradiscono le emozioni, soprattutto l'imbarazzo o la ver­gogna, con un rossore diffuso dal centro verso il collo e le orecchie. Ma le guance sono soprattutto un centro di attrazione emotiva: vengono accarezzate, premute, tenute tra le mani; baciate, pizzicate, nel contatto affettuoso. Perché? Per il forte richiamo parentale che la guancia paffuta del bambino esercita sugli adulti dell'uomo, unico animale ad utilizzare il richiamo d'una guancia rotonda e piena per attirare l'inte­resse e l'attenzione affettuosa dei presenti.

Ampia è la gamma dei gesti che riguardano le guance, dal toccarsele o pizzicarsele di­strattamente, o puntellarle cori la mano quando si è seduti ad un tavolo (segno di noia, o di stanchezza), all'avvitamento del dito indice (a significare la bontà o squisitez­za di una pietanza). forse derivato da un antico ringraziamento al cuoco, per una pastasciutta cotta al dente, fino al paternalisti­co pizzicotto che denota affetto in un modo volutamente brusco e agro-dolce.

La bocca è ancora più espressiva; e spe­cialmente quando si invecchia la posizione di riposo delle labbra tende a riflettere la disposizione emotiva che ha caratterizzato la nostra vita. Se siamo stati in prevalenza felici, tristi, irritati, depressi, entusiasti, la linea della nostra bocca si fissa in tale espressione in modo quasi stabile, in una specie di maschera facciale. Le labbra, du­rante l'eccitazione erotica, si gonfiano e acquistano un colore rosso più vivo, in en­trambi i: sessi.

Ma le labbra naturalmente o artificialmente più sporgenti e appariscenti trasmettono segnali sessuali anche per un altro motivo: perché sembrano imitare le labbra dei genitali femminili. L'erettilità della lingua, poi, oltre a completare veristi­camente l'analogia con un organo sessuale, permette tutta una serie di gesti semantici diretti, con la linguaccia di rifiuto o scherno, e la lingua all'angolo della bocca (tipica dei bambini), segno di concentrazione e di iso­lamento temporaneo.

La flessibilità e mobilità del collo è all'ori­gine di molti altri movimenti e gesti signifi­cativi, alcuni dei quali a diffusione locale. È noto l'imbarazzo che causa nei turisti nordi­ci il gesto greco di gettare bruscamente la testa all'indietro per significare «no». An­che in alcune zone della Magna Grecia orientale (Puglia) si usa esprimere una ri­sposta negativa flettendo il collo in questa modo, forse come residuo del gesto di rifiu­to del seno da parte del lattante sazio. I movimenti laterali, gli scatti, le torsioni, le oscillazioni, l'inchino, l'abbassamento, la rotazione lenta, sorto altrettanti movimenti espressivi posti al servizio della testa e quin­di della comunicazione interpersonale e so­ciale. Perfino le spalle sono cariche di pesan­ti significati; per lo più sconosciuti alla mag­gior parte degli uomini.

La caratterizzazione sessuale è evidente nella rotondità delle spalle femminili (che ricorda altre rotondità, come le natiche e le mammelle) e nell'imponenza o nella larghezza delle spalle maschili, evidente frutto di evoluzione causata dalla divisio­ne del lavoro: Gesti come l'alzata di spalle (ignoranza, indifferenza), la scrollata vigorosa e ritmica (riso in compagnia), la pacca sulla spalla (congratulazioni), deri­vano da antiche posture difensive basate sulle spalle inarcate e sollevate. Del resto, quando ridiamo solleviamo e scrolliamo le spalle come in un gesto di timore atavico: Di fronte all'umorismo restiamo timorosi, come se vi si celasse un pericolo. Quando ci rendiamo conto che l'umorismo è inno­cuo, ridiamo; ma scrolliamo 1o stesso le spalle, in un residuo ineliminabile del primordiale timore.

L'uomo è l'unico primate la cui femmina presenta mammelle gonfie e tonde anche quando non produce latte. Il seno femmini­le, quindi, ha una forma e uno scopo sessua­le, non parentale, e l'ostinarsi a voler consi­derare infantile e regressiva la risposta ma­schile all'esibizione delle mammelle è uno dei tanti errori del pensiero psicoanalitico. Potrà sembrare strano, eppure dal punto di vista evolutivo-funzionale sono le mammel­le a imitare le natiche come segnale di attra­zione per il maschio, e non viceversa.

I segnali posteriori della femmina dell'uomo, quando cammina a quattro zampe, erano due emisferi appaiati, posti proprio sopra la vagina. Di qui l'atavico interesse maschile per le natiche femminili pronunciate, vero e proprio segnale di direzione sessuale. Le mammelle oggi appaiono come copie reali­stiche delle natiche, ora che la postura a quattro zampe è solo un lontanissimo ricor­do evolutivo. La replica delle natiche come richiamo sessuale, sotto forma di mammel­le, permette così alla donna di essere ricono­sciuta frontalmente come tale dal maschio, senza possibilità di dubbio e senza necessa­riamente dover mostrare la parte poste­riore.

Per quanto anatomicamente inadatte alla suzione del latte, a causa della forma sferica e delle dimensioni abbondanti che rischiano di soffocare il lattante, le mammelle umane sono commisurate per numero ad una potenziale coppia di gemelli. Ma il parto gemellare è una evenienza rara (1 su 100), perché la coppia umana è predisposta alla figliata seriale, cioè con un solo figlio per volta, quindi con bambini di età diverse che si sovrappongono e si alternano nelle richieste di attenzione. Ecco perché la probabilità di parti tripli è solo di 1 su 10 mila e quella di parti quintupli 1 su 40 milioni.
Ma è proprio vero che la donna possiede solo due mam­melle? Ci sono donne (1 su 200) che ne possiedono anche tre o quattro, ma è chiaro che si tratta di residui anatomici, non più funzionali, spesso consistenti solo in leggeri e piccoli rigonfiamenti al di sopra o a lato di una mammella sviluppata e in un embriona­le capezzolo.

A differenza delle mammelle, le natiche semicircolari sporgenti sono tipiche dell'uo­mo. Si sono sviluppate in seguito alla stazio­ne eretta, contribuendo in modo determi­nante al nostro aspetto posteriore; eppure sono sempre state oggetto di dileggio e co­micità, o considerate ridicole e oscene, a causa della vicinanza dell'ano e dei genitali. Mostrare le natiche nude, in tale contesto inibitorio, è considerato un'ingiuria oppure una infrazione scherzosa (streakers, goliardi americani, cantanti pop). La diversificazio­ne sessuale le ha rese piccole e muscolose nell'uomo, larghe tonde e morbide nella donna, fino a divenire, come nella Grecia classica (cfr. Venere «callipigia»), un ele­mento determinante della bellezza umana, specialmente femminile. In confronto alla piccola rugosa callosità ischiatica delle scim­mie e al sedere inesistente del Diavolo – secondo una secolare immaginazione popo­lare – le natiche sviluppate e muscolose finiscono paradossalmente per diventare il maggior segno di riconoscimento della no­stra specie, insieme ai capelli lunghi.

L'esibizione sessuale permanente delle rotonde natiche femminili fa il paio con quella delle mammelle ed è anch'essa unica tra i primati, le cui femmine invece le mo­strano gonfie e colorate solo nei periodi di estro. La rientranza delle natiche della don­na assomiglia molto al simbolo stilizzato del cuore e dell'amore, certo molto più di quan­to non assomigli al cuore reale. E probabile quindi che il simbolo amoroso, trasferito per censura sociale su un organo innocuo, voglia rappresentare proprio le natiche femminili nude viste da un maschio amoroso che si avvicina da dietro.

Al maschio, prima che prendessero piede le danze rock-and-roll e l'hoola-hoop, non si addiceva dimenare fianchi e natiche, gesto erotico considerato erroneamente soltanto femminile. Oggi la gestualità in quest'area è molto più accentuata per entrambi i sessi e l'ostentazione del movimento delle natiche anche da parte del maschio ricorda la spinta pelvica dell'atto sessuale. L'ostentazione e la messa in mostra con ogni pretesto dell'or­gano sessuale maschile umano – il più gran­de tra tutti i primati – costituisce di per sé un esempio comune di gestualità significante molto frequente, sia nella danza che attra­verso capi di abbigliamento appositamente confezionati per mettere in risalto i genitali (costumi da bagno, pantaloni jeans).

Forme anatomiche e gestualità delle gam­be interferiscono, più di altre zone del cor­po, con il tipo di abbigliamento (gonna, pantaloni, tuta aderente o larga tunica, ecc.), ma continuano ad essere segnali psi­cologici sicuri, proprio per il carico di con­vinzioni e inibizioni da cui sono gravati i nostri arti inferiori. La posizione con gambe aperte, in piedi, seduti o sdraiati, denota fiducia, stabilità e sessualità. È tipica dei dominanti, i quali non si attendono nessuna minaccia. Star seduti a gambe aperte inclu­de, però, anche un po' di ostentazione geni­tale, evidente quando si immagina la perso­na – in genere di sesso maschile – priva di abiti. Le convenzioni sociali e i libri di gala­teo consentono solo oggi, e ancora con diffi­coltà ed eccezioni, ad una donna di sedere con le gambe aperte in pubblico.
Il galateo più tradizionalista vieta anco­ra alla donna di accavallare le gambe, un gesto considerato ancora sfrontato o negli­gente. L'incrociare le gambe può essere diviso in almeno nove modi diversi, dal­l'accavallamento caviglia-ginocchio, atto tipicamente maschile e comunque legato all'uso dei pantaloni, fino all'accavallamento coscia-coscia, che è tipicamente femminile per la particolare larghezza del bacino che si richiede per compierlo. Inutile dire che forme molto pudiche e timide di accostamento delle gambe in posizione seduta (es.: incrocio caviglia-caviglia con gambe oblique) denotano un atteggiamen­to molto formale e tradizionalmente auto­controllato. Tenere con le mani un gamba piegata verso il ventre o il busto è invece una chiara posizione di difesa dei genitali, frequente nelle donne ma non esclusiva. Serrare strettamente le gambe incrociate è un segno di disagio, quanto più forte e stretto è l'accavallamento.

Le diverse parti del corpo vengono in evidenza anche quando l'uomo o la donna vengono fisicamente a, contatto tra loro o con se stessi. In tali casi è importante sapere come interagiscono braccia, nasi, gambe, busto, mani, ecc., nei complessi rituali della carezza, dello sfioramento, dell'abbraccio o dell'intimità amorosa. L'esigenza di tattili­tà, allora, assume un ruolo fondamentale nella vita dell'uomo.

Si può dire, anzi, che la specie umana, ancora più delle altre specie animali, viva di contatti della pelle, di carez­ze; di messaggi, di «coccole» e atti d'amore, come ha dimostrato scientificamente l'antropologo Ashley Montagu in un bellissimo volume e vademecum sul tatto (Il linguaggio della pelle, Garzanti-Vallardi 1981).

L'intimità tra esseri umani, dallo stadio prenatale alla maturità, mette allo scoperto – per chi li sa leggere – i significati più reconditi e meno evidenti delle azioni ormai più automatiche e abitudinarie, come insegna l'etologo e antropologo Desmond Morris in un suo pregevole volume (Il com­portamento intimo, Mondadori-Oscar 1986) appena riedito in edizione tascabile. Ma l'opera di divulgazione forse più imponente, anche per l'intelligente uso del corredo foto­grafico e del grande formato, resta la ricerca di Desmond Morris sull'anatomia, l'evolu­zione e il linguaggio del nostro corpo ester­no, ora edita e tradotta anche in Italia (Il nostro corpo, Mondadori 1986), alla quale ci siamo parzialmente ispirati, con la sintesi del caso, nel presente articolo. Arguto e polemico come Huxley e Russel, l'oxfordia­no professore di zoologia e l'etologo umano autore della «Scimmia nuda», è riuscito nell'intento di realizzare una guida al lin­guaggio del corpo che non fosse solo da leggere ma anche da guardare, sia pure criticamente.