05 novembre 2015

PASOLINI. L'inquieto intellettuale non conformista: uomo non mito, né santino.

SAN PASOLINI. Finite le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini? Speriamo di sì, perché si cominciava ad averne abbastanza, fin quasi a provare una certa nausea: quel dolciastro che viene dall’ipocrisia, dal rito doveroso e stanco, dall’elaborazione del mito un po’ forzata.
      Sono passati quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, senza dubbio un intellettuale tra i più noti, ubiqui, anticonformisti e versatili dell’Italia contemporanea, uno che ha scritto moltissimo – una vera bulimia della scrittura – e sui più disparati argomenti, cosicché si possono trovare a sua firma le frasi più impensabili.
      Ma a differenza degli altri intellettuali aveva una particolarità: mettere sempre in gioco se stesso, il proprio essere, la propria corporeità e diversità, anche sessuale, anche politica, anche culturale. In questo ricordava certi esibizionismi di Pannella, anch’egli platealmente “senza pudore”.
      E ora giornali, radio e televisioni, senza contare il web, hanno dedicato alla sua figura, dopo averlo dimenticano per decenni perché contraddittorio e imbarazzante, e quindi “inutile” politicamente, molto, troppo spazio per non indispettire e insospettire. Tanto da generare perfino reazioni di rigetto e vere e proprie “stroncature” post mortem, o alla sua professione di regista cinematografico o all’intera sua figura di uomo e filosofo “pedagogista” o meglio educatore sociale. Una sorta di paradossale e insopportabile “moralizzatore depravato”, questa mi sembra di capire sia l’accusa più comune dei suoi detrattori. 
      Eppure, il solito conformismo dei media “progressisti”, forse per espiare i propri peccati, è sembrato operare anche nel caso Pasolini come una reazione metabolica, di adattamento culturale (stavolta fuori tempo massimo) al personaggio più anticonformista, anzi sulfureo. Così lo ha improvvisamente sopravvalutato a compensazione di antichi torti, insomma reso simbolo, mitizzato, trasformato in una sorta di icona perbenista del “politicamente scorretto”. Ma sempre comunque un politicamente corretto: il solito conformismo dell’anticonformismo artefatto.
      Non era mai piaciuto davvero né a Destra (figuriamoci), né a Sinistra (e come avrebbe potuto, con la Sinistra dogmatica e puritana di quegli anni?). Certo, era inevitabile nella società della “cultura” di massa fondata sulle notizie e lo spettacolo, che l’anticonformismo dell’uomo Pasolini, personaggio colorito e “maudit” che frequentava balordi e viveva pericolosamente, prevalesse sulle qualità dello scrittore, perfino agli occhi di giornalisti e intellettuali. E infatti, oggi è assodato che come scrittore sia stato molto sopravvalutato (come del resto Moravia): entrambi caduti quasi nel dimenticatoio tra il pubblico dei lettori.
      Ma a 40 anni dalla sua drammatica, sanguinosa, scomparsa, sembra che tutto sia cambiato. E dire che a parte la sottocultura conservatrice e reazionaria che lo odiava – anche se i suoi rari "intellettuali" apprezzavano certe sue fisime o giravolte considerate reazionarie (l'articolo sulle lucciole, i poliziotti ecc.) – l'intellighentzia autodefinitasi progressista, tranne ovviamente il gruppo Moravia-Siciliano che poi erano i suoi amici più stretti, non lo poteva soffrire, e anzi, dopo Valle Giulia ("Sto con i poliziotti figli del popolo, non con gli studenti figli di papà") prese a considerarlo un provocatore con idee incontrollabili, anche di destra. Stessa storia di Sciascia. E ovviamente scompigliando idee, ideologie e schieramenti con la massima confusione non poteva non garbare ai radicali. Sull'ambiguità culturale-ideologica del personaggio-simbolo (e sì, perché fu soprattutto un personaggio, qualunque cosa facesse) i critici specializzati nei vari campi toccati da PPP (poesia, letteratura in genere, filologia e linguistica, sociologia, politica, estetica, cinema ecc.) già hanno detto la loro.
      Accennavamo alle “stroncature” da insofferenza. Segnaliamo, perché eccentriche, solo due piccanti prese di posizione, addirittura iconoclastiche. Un regista dell’ultima generazione (Muccino) ha scritto su Facebook (ma ha poi cancellato il post) che, per quanto riguarda la regia cinematografica, la corazzata Pasolini è una boiata pazzesca, cioè più o meno "PPP era un regista dilettante senza una idea registica", che ha fatto "regredire non progredire la cinematografia italiana". Non posso obiettare, perché non esperto di cinema, ma avendo occhi per vedere, per quel po' che vidi dei suoi film, notai che la sua macchina da ripresa si muoveva spesso casualmente e disordinatamente come quella dei reporter da inchiesta giornalistica.
      Come se non bastasse, lo scrittore Gaetano Cappelli (a me sconosciuto, sicuramente per colpa mia) disegna su Facebook un bozzetto sulfureo, fulminante, dell'uomo, più che dell'artista. Abituato ai sonetti del Belli e alla satira, amante anch'io dei ritratti icastici e caustici (un mio piccolo hobby), ho apprezzato moltissimo. Un cammeo perfetto che qui riportiamo dopo avergli messo (law and order...) le maiuscole che mancavano, perché forse così il Nostro, evertendo la grammatica, si considera più eversivo (un vizietto provinciale ben noto, come le minuscole dei biglietti da visita di certi geometri di paese). Ma, attenzione ai permalosi, a quelli che prendono sempre tutto sul serio, in modo religioso: è satira, una specie di epigramma alla Marziale:
      «Ricorre oggi san Pasolini – scrive il Cappelli – il grande intellettuale e profeta italiano. Da giovane consegnò un compagno di scuola alla polizia fascista. Passò poi con i comunisti che gli avevano trucidato il fratello. Fu il primo a scagliarsi contro la cultura di massa – disprezzò i Beatles e la televisione stando sempre in televisione. Riuscì a fare l'apologia del comunismo in Russia negli anni 70, quando anche le pietre sapevano che schifezza era. Si scagliò contro il consumismo girando in Ferrari e posando in total Gucci. Oggi molte scuole gli sono dedicate. Egli infatti, Pasolini, amò molto i regazzini».
      Ma uscendo dalle provocazioni e dagli epigrammi satirici, che pure hanno una loro logica e devono rispondere a inesorabili leggi interne, di cui persone di mondo come noi, tanto più interessate alla satira, alla critica e perfino ai sonetti di GG. Belli, non si scandalizzano minimamente, vorremmo concludere con una sintesi più esauriente e meditata, che forse rappresenta meglio il “caso Pasolini”, quella scritta da Gianni Morelembaum Gualberto sulla sua pagina Facebook quando si è accorto del boom di rievocazioni mielose, spesso provenienti dalle reti radio-tv e dai giornali più improbabili: «Lo stavo notando, senza stupirmene più di tanto», scrive Gualberto. «È tutto un fiorire commosso di PPP di qua e di là: poesie, film, stralci di lettere, la mamma, il Friuli, le radici contadine, i figli dei poliziotti, i giovani borghesi: una marea di parole che, in fin dei conti, lo seppelliscono un'altra volta, anche se con delicata e ipocrita partecipazione. Tempo fa, pur non essendo un vedovo di Pasolini (la categoria più vicina che conosco è quella dei vedovi della Callas...), vedevo un breve stralcio da un suo documentario su Sabaudia e sulle radici dell'architettura fascista. Non ho potuto fare a meno di ammirare la lucidità dell'eloquio voltato verso il passato, all'indietro, verso quell'Italia pre-Donnarumma che non è stata capita nella sua umiltà e nelle sue fragilità, che è stata trasformata facendo aggio sulle sue più oscure pulsioni, ridotta a una maldestra parodia di una modernità distorta e senza radici. Nulla di quel che ci accade oggi è casuale»
      Ma, e il Pasolini “santo subito”? «Normale la canonizzazione di Pasolini – continua Gualberto – da parte di una Sinistra che lo ha a lungo osteggiato, dileggiato, ignorato e dimenticato. Tant'è che una parte della Destra (!!!) ha cercato per un periodo, con affabulatorio e sfacciato senso del raggiro, di appropriarsi delle sue spoglie cadute in un imbarazzato dimenticatoio. È l'amaro destino dei politicamente scorretti: non v'è nulla di più violento, sopraffatorio, razzista del politically correct. Pasolini è stato fra le sue prime e più illustri vittime. Nell'Italia di oggi non vi sarebbe posto per lui, se non – per l'appunto – come santino, come festivo lavacro di alcuni rimasugli di coscienza».
      Anche la cultura di sinistra più blasonata oggi - come pochi ieri osavano - ne prende le distanze. Naturale che critici seri ed esigenti, primo tra tutti Angelo Guglielmi, gli fossero già allora contrari. E a quei tempi di “dittatura” intellettuale del trinomio Moravia-Pasolini-Siciliano, la cosa non era affatto facile. A criticare Pasolini o Moravia, a parte il caso dell'inattaccabile Angelo Guglielmi, critico noto come progressista, cultore delle avanguardie e poi direttore di Radio-3 della Rai, c’era il rischio di esser tagliati fuori da editoria, giornalismo e tv, oppure d’esser definiti fascisti.«Moravia aveva scritto un solo bel romanzo, Gli indifferenti, e lo aveva fatto inconsapevolmente. Pasolini anche peggio. Ragazzi di vita era antropologia linguistica e Una vita violenta era tremendo», ha dichiarato Guglielmi in un’intervista a Malcom Pagani sul Fatto Quotidiano (29 marzo 2016). «Non a caso il terzo capitolo della trilogia romana, previsto, non vide mai la luce. Moravia si accorse del fallimento letterario e lo trascinò con sé in India».
      Eppure, lei salvò Petrolio, obietta l’intervistatore. «L’unico vero romanzo» ha ammesso Guglielmi. «Un insieme di riflessioni, pezzi di giornale, note di cronaca. In Petrolio, non facendosi condizionare dai limiti narrativi, Pasolini fece finalmente entrare il mondo nelle pagine». Però, un romanzo incompleto. «Com’era incompleto il Pasticciaccio. Un merito più che una colpa. Il luogo in cui Pasolini ha risolto la sua ambizione – diventare una stessa cosa con la realtà – è stato il cinema. Salò è un film incredibile. Pezzi di corpi, lembi strappati, sofferenza. Vedevi lo scempio. Ti squassava. Come nel neorealismo di De Sica e Rossellini che amavamo perché ti faceva toccare le cose, il Pasolini da set era materialista. Senza i crepuscolarismi, senza il naturalismo di stampo ottocentesco, i vibranti slanci di retorica fasulla, l’intimismo sgradevole che albergava in tutto quello che consideravo come la peste: Metello di Pratolini o La ragazza di Bube di Cassola».             
      Qualcuno sostiene – insinua Pagani – che in Salò Pasolini abbia prefigurato l’addio. «Non credo alle prefigurazioni» risponde Guglielmi. «Gli è capitato di andarsene in quel modo, ma viveva in maniera pericolosa e non mi meravigliai. Poteva accadergli qualsiasi cosa, persino di non morire»

AGGIORNATO L'8 APRILE 2016